Questo articolo è tratto dal blog di poesia Blanc de ta nuque che ringraziamo per aver ospitato sulle proprie pagine la recensione di Fanon City Meu scritta da Paolo Agrati, poeta e traduttore per Edicola Ediciones del libro di Jaime Luis Huenún.

“Ciò che conta nella lettura di un libro è il piacere. Voglio dire, tutto quello che la critica può dire riguardo alla parola scritta da un autore, è riassumibile nella parola piacere. O dispiacere, certo. Ma quando un libro mi dispiace non termino neppure di leggerlo. E in più non ne parlo se non per sconsigliarlo. E’ stato dunque il piacere a convincermi a tradurre Fanon City Meu, l’ultimo libro di Jaime Luis Huenún. Il piacere di una scrittura che affonda appieno nelle radici  del Sudamerica,  percorrendone i miti, le simbologie, la passione. Ci sono i luoghi, i santuari, gli eroi e mi è parso naturale nella traduzione, mantenere le parole chiave di questa tradizione, usarle come pietre, appigli per restare saldamente ancorati alle atmosfere e al sentire dell’America Latina.  Anche perché il senso stesso del libro di Huenún è proprio quello di riappropriarsi della cultura indio a partire dai riferimenti che già il titolo ci suggerisce chiaramente.

 

(Frantz) Fanon, psicologo nato nel 1925 in Martinica e rappresentante simbolo del movimento terzomondista per la decolonizzazione, dona il suo nome ad una città immaginaria nella quale si snoda il percorso poetico offerto al lettore. Una city che l’autore sente propria; meu cioè mia, non a caso in lingua portoghese nel titolo.

Egli si addentra in questa città, che si costruisce e si consolida come entità anticoloniale, decostruendo nel medesimo tempo e tramite la parola giusta, le radici linguistiche e culturali del colonialismo.  E’ infatti la potenza di parole intraducibili  a caratterizzare questo percorso che vede il pronunciarsi dei (meticci) zambos , dei (messaggeri) chasquis, degli (spiriti) apus, degli (indigeni)arahuacos e mocovies,  delle chacanas, le antiche croci andine.Parole che segnano un cammino che può essere fatto e detto solamente in quella che è la lingua indio e sulla quale si poggia saldamente la struttura delle poesie di questa raccolta.

Di origine mapuche huilliche, cioè  appartenente al gruppo di etnia mapuche che vive nella parte più meridionale del Cile, il poeta afferma cosi le sue radici recuperando l’identità indigena che è da sempre discriminata e che solo da pochi anni a questa parte, si va orgogliosamente riaffermando in varie parti del continente americano. Ed ogni poesia è uno spaccato su un luogo, una situazione, un piccolo evento che attraversa le vene dell’america latina. Parlo di piccolo, solo volendo intendere la brevità delle poesie di Huenún che sono concise, efficaci, dirette, volte al concetto più che alla sonorità del verso. Dicono quello che devono senza ammorbarci con pagine di parole annacquate. E a uno come me che ha una delicata soglia d’attenzione, nonchè una facile inclinazione ad annoiarsi presto, non può far altro che piacere trovare quest’efficacia  espressiva che ritengo sia propria della grande poesia.”