Ci incontravamo in cucina dopo giornate estreme a base di alcol.
Gianfranco non usava quasi mai la camicia, cosa che non lo rendeva affatto attraente, talmente era avanzato il suo stato di denutrizione. Con la pelle attaccata allo scheletro, sembrava uno di quei corpi donati alla scienza per la ricerca.
In realtà non sempre l’incontro era casuale. A volte arrivavo senza fame né sete, ma sapendo che la sua stanza era vicina alla cucina e che soffriva d’insonnia, entravo lo stesso e mi sedevo a bere un tè o un ultimo bicchiere. Con intenzioni simili alle mie, lui sbucava parlando di qualsiasi cosa come se fossero le tre del pomeriggio. Sostenevamo grandi conversazioni, discutevamo quasi di tutto, compresi alcuni temi poco ortodossi come la relazione tra il consumare certi alimenti e la pratica sessuale. Mi raccontava, senza alcuna riserva, che mangiava solo qualche mandorla al giorno e tre bicchieri di succo naturale d’ananas per insaporire, in teoria, i suoi fluidi. Dopo diverse discussioni sulla fattibilità delle sue idee, iniziò a passare dall’essere un corpo da esperimento scientifico a un possibile oggetto del desiderio.

Io uscivo dal lavoro alle cinque e mezza del pomeriggio, ma non mi facevo mai viva prima delle due del mattino. Un impiego kafkiano mi accompagnava verso un crescente alcolismo del quale ero cosciente ma che non facevo niente per evitare. L’unica volta che non bevvi né piombai in qualche bar o pub, fu un lunedì di novembre. Non c’era nessuno: né il francese, né la giapponese, né il tedesco, né le due australiane, né l’insopportabile cileno erano lì per interromperci. Entrando in cucina mi scontrai con un’immagine bellissima e allo stesso tempo inquietante. Gianfranco aveva disposto in fila sul tavolo tutti i tipi di coltelli, dal più piccolo al più grande come si fa con gli strumenti in sala operatoria. Quando mi vide entrare mi disse due parole, precise e bibliche: «Va’ e sdraiati». Gli diedi retta e rimasi fissa a guardarlo. Lui mi aprì la blusa bottone per bottone; non c’era fretta nei suoi movimenti. Il ticchettio dell’orologio che pendeva dal muro era perfettamente a tempo con le sue mani. Dopo aver terminato, prese il coltello più piccolo e l’affilò con l’aiuto di una pietra. Si aprì un po’ i pantaloni, si denudò il sesso e si avvicinò alla mia gamba. Mi sfiorò appena. Rimasi immobile.
Con il coltello appena affilato tagliò bastoncini di cetriolo e sedano che usò per sfregarsi il cazzo, poi tagliò fette di zenzero che infilò con precisione tra le mie labbra inferiori, senza togliermi la biancheria intima. Poi, come se si trattasse di una porzione di sushi, stese sul tavolo una foglia di alga Nori, e con grande abilità, arrotolò il suo cazzo nell’alga, brillante e perfetto. Mi sarebbe piaciuto scattare una foto di quel momento per la forza pornografica che emanava; queste immagini mi salgono ancora alla mente quando mangio, quando scopo, o quando passeggio per posti come il mercato de La Vega, il Mattatoio o i supermercati cinesi. Non sono capace di vedere gli oggetti per quello che sono, per me tutto è un potenziale strumento di erotismo.

In un certo modo la vita ci cambiò. La smettemmo con le maratone di bar e iniziammo a fare colorate passeggiate alla fiera o ai mercati generali. Quando dovette ripartire per l’Italia non ci fu tempo per salutarci. Sulla mia scrivania trovai due buste in carta da regalo. In una c’erano un mango, delle ciliegie e un frutto strano dal quale uscivano due braccia. Ancora oggi, una volta l’anno, ci scambiamo affettuose lettere dove io gli invio mutandine, fotografie intime e vegetali in pose sessuali, e lui diverse preparazioni con il famoso Urechis unicintcus.

Hai appena letto “Cucina internazionale” un racconto tratto da Valporno di Natalia Berbelagua.