Sara Bertand, scrittrice e giornalista cilena, ha risposto al nostro invito mandandoci una riflessione sul ruolo dell’istruzione per affrontare una crisi che in questi giorni sta coinvolgendo il Cile, ma che ha radici profonde e radicate in molte parti del mondo. La traduzione è di Serena Magi e Paolo Primavera.

 

Anatre e leoni marini. Riportiamo la politica nel mondo delle idee

 

“Corrompere i giovani significa solo una cosa:
fare in modo che non percorrano strade già tracciate,
che non si votino all’obbedienza dei costumi della città,
che possano inventare qualcosa, proporre un nuovo orizzonte”.

Alain Badiou

 

Le anatre sono disciplinate, nuotano, si riposano, si nutrono e si spostano in gruppo; anche se sembra che non vadano da nessuna parte quando fanno avanti e indietro ogni pochi metri, il loro modo di mappare le acque ha comunque qualcosa dello schieramento militare: in fila, sei da una parte, sei dall’altra, una specie di boomerang che si apre ai lati. A volte, sostituiscono la linea con il cerchio, questa formazione è meno efficiente, difficilmente si muovano così, ma, in compenso, disegnano una sfera perfetta che gioca ad apparire e sparire. La loro routine è prevedibile e affascinante: si immergono a partire dalle estremità, a destra o a sinistra, e pochi secondi dopo, anche se a volte passano minuti, emergono nello stesso modo ordinato. L’acqua le avvolge tutt’intorno; a volte, il vento le scuote, su e giù, e si lasciano trasportare dalla marea, dalle onde. La situazione si ripete senza variazioni, giorno dopo giorno, ora dopo l’altra, prendo nota mentalmente dei loro movimenti, quando qualcuna rimane indietro; quando un’altra s’immerge e riappare lontano dal gruppo e nuota in fretta per raggiungerlo, quando avanzano in quella fila perfetta e la bocca di un leone marino ne ingoia due o tre, un solo morso, una sconfitta senza drammi. Le anatre non urlano, sbattono le ali e formano di nuovo una linea o un cerchio, come se quelle che se ne sono andate non ci fossero mai state. Non so se, scesa la notte, nel loro rifugio, ci sarà una sorta di rito per ricordare i caduti o qualche altra forma di lutto, lacrime, ma in quel momento non mostrano alcun segno di dolore, quando l’elegante movimento del leone marino ne raggiunge una manciata, e fa impressione, perché i leoni marini misurano tre metri di lunghezza per trecento chili di grasso, pellicce e zanne, e di solito sulla spiaggia o sugli scogli sono molto goffi e lenti; ma in acqua hanno le movenze di una deliziosa ballerina.

La prima volta che ho assistito a quell’uccisione, guardavo verso il canale, seduta in una pasticceria, soffiava una brezza né fredda né calda. Era stato davvero un pomeriggio perfetto, fino a quel momento, fino a quando le anatre e i leoni marini si sono mostrati in tutta la loro stranezza. Un colpo che mi ha provocato l’opposto, volevo urlare come una pazza, avvisare qualcuno, ma non esiste un poliziotto di mare che insegue il leone marino o raccoglie le testimonianze di parenti e amici delle anatre. La distanza tra il loro mondo e il mio era spaventosa.

 

Ho capito che morirò;
ho detto a me stessa
che morirò, l’ho detto
e ho ringraziato per il dolore,
per l’oblio, bene; ho detto
a me stessa: pensa come
un uccello che costruisce il suo nido,
pensa come una nuvola, come
le radici della betulla nana
pensa come pensa una foglia
di un albero, come pensano l’ombra e la luce.

(Inger Christensen)

 

Per secoli siamo rimasti a guardare il nostro ombelico, assorti nella nostra natura, nei nostri corpi, nella nostra civiltà e in questo abbiamo messo tutto l’impegno e la grazia. Siamo abituati a pensare in assoluto, come se il nostro posto sul pianeta fosse quello, i padroni del mondo. Non abbiamo pensato come pensano i cani, le clematidi nate vecchie, esotiche e sensuali, un fiore che si apre lentamente al mistero, rugoso e scuro. Né pensiamo come le cortecce degli alberi o le conchiglie o le catene montuose che guardiamo e ammiriamo compiaciuti, come se fossero state piantate lì solo per il nostro godimento. Figuriamoci poi pensare come un’altra razza, un’altra pelle, un’altra bellezza. Tendiamo a guardare alle cose con pregiudizi ereditati, la nostra appartenenza a un paese, una città, una classe sociale o un’istruzione, e sembra che non abbiamo avuto niente da offrire o da distruggere, perché con quale rapidità ci adattiamo, come se tutto fosse già stato detto, come i miti greci, che hanno parlato di tutto o quasi, come se l’immaginazione di questa parte occidentale del pianeta fosse esaurita. Né pensiamo come pensano gli uomini o come le donne, di solito ci aspettiamo che tutti si comportino in base al loro sesso, perché ci sono delle regole, perché è così, è scritto, pubblicato e archiviato. E così andiamo, né avanti né indietro, proprio come le anatre quando formano cerchi e lasciano che la marea le prenda.

 

“Parliamo dell’origine delle credenze delle persone, come se l’esperienza fosse predeterminata, come l’altezza o la misura dei piedi, o come se fosse assorbita automaticamente dalla cultura, come il linguaggio. Come se costruire il significato della realtà non avesse a che fare con una scelta consapevole e deliberata.”

(David Foster Wallace)

 

Imparare a pensare sembra un compito semplice, fattibile per qualsiasi essere umano con accesso all’istruzione, diamo per scontato che l’asilo, la scuola o l’università forniscano i criteri necessari per evitare un qualche tipo di tirannia o prigione, come se l’apprendimento di un determinato piano di studi fosse una garanzia di consapevolezza e ampiezza di vedute, e non è così. Non è così. In tal caso, infatti, il mondo non si troverebbe nello stato di tensione in cui si trova, con focolai di violenza e disagio ovunque, un risentimento generalizzato contro una causa che in realtà nasconde una profonda frustrazione per l’ordine in cui viviamo, per il sistema imperante. Se ci fossimo fermati a pensare dalla parte dell’altro, del diverso, probabilmente, avremmo già compreso da molto tempo la distanza che ci separa dal mondo animale, la sua geografia e la sua flora; avremmo capito che i confini sono il mare, le Ande, il deserto del Sahara, i monti Urali, il ghiaccio siberiano o la foresta pluviale amazzonica, solo per citarne alcuni; parliamo di spazi fisici giganteschi e selvaggi, luoghi che comportano spedizioni complesse, che ci riportano rapidamente alla fragilità della nostra specie, perché un confine naturale è per definizione una lezione di umiltà. Ci si arriva senza sapere bene come se ne uscirà. Del resto, cosa sappiamo del mare? È stato la discarica universale, dove sono andate a finire un’infinità di schifezze e di spazzatura, borse, scarpe, giocattoli, remi, olio e altre sostanze tossiche e, nel nostro immaginario, il mare si trasforma nella bocca del leone marino che fa scomparire le anatre in un sol boccone. Della sua intelligenza, passaggi, misteri, buchi neri e vulcani, invece, sentiamo parlare in lontananza, come se la voce delle sirene fosse in realtà un’eco silenziosa, perché viviamo giù a terra. E ci tramandiamo l’insegnamento di una geografia politica donataci dalla guerra e dai suoi fiori del male. Sui mappamondi che i bambini guardano con tanta sorpresa, passando le dita da un continente all’altro, c’è tanto sangue quanto i milioni di litri che circolano negli abitanti che li popolano. Quindi, uscire da quella configurazione mentale, come avverte Foster Wallace, è una qualcosa che si decide. O che si insegna.   

La crisi che attraversa la nostra società, e penso al mio paese, ma includo tutti quelli dell’America Latina e del resto del mondo, è complessa; non si limita solo alle richieste del popolo, agli stipendi bassi, agli aumenti dei prezzi del trasporto, al cibo, alla precarietà nella copertura delle necessità basiche, questi sono sintomi di qualcosa di più profondo, è la caduta nell’ordine simbolico esasperato dal passaggio dal mondo delle idee a quello del denaro e, di conseguenza, alla mancanza di un contesto sociopolitico cha abbia senso. Una crisi che non ha altra leadership che la fiamma accesa nella manifestazione popolare, che la lotta per i diritti delle minoranze, per il sistema pensionistico, per i trasporti, per le tasse; incendi che si appiccano con furia e si spengono con più violenza, con i militari in strada e il rumore degli elicotteri che entra dalle finestre, scene che fanno male perché ci ricordano quanto vicino ci muoviamo alla spada, al manganello, con quale leggerezza andiamo incontro ai corpi, sottostimando lo spazio pubblico, la sua diversità, la sua ricchezza.

Probabilmente, per capire quello che succede nelle nostre città, il malessere della società civile, dovremmo tornare alla Rivoluzione Francese, quel momento che segna la rottura dall’ordine tradizionale alla ricerca di un’uguaglianza e di una libertà che tutti noi esseri umani desideriamo possedere: libertà di governarci, dialogare, trasformare la nostra comunità in uno spazio d’incontro e di simboli, ma in qualche passaggio, abbiamo dimenticato la politica, abbiamo sotterrato l’idea di dio, ovvero, quell’idea di un ordine capace di caricare di senso mistico i nostri discorsi, e saltando, saltando da una pietra all’altra, abbiamo respinto ogni narrazione rimpiazzandola con la logica del denaro. Abbiamo pensato che quel sistema, carente di simboli e di riti, sarebbe bastato per ordinarci e farci sentire che lo sforzo ne valesse la pena, ma l’esistenza è complessa, come le società, fragili insiemi di riunione e quando il denaro si è espresso in ognuno dei nostri spazi, quando si è convertito nel comune ordinatore dei nostri più minimi movimenti, facendo sparire il bene comune e saturando il bene privato, il benessere personale si è trasformato in individualismo. In quello spazio senza rischio né frizioni, allontaniamo ogni gesto collettivo. Perché quando il leone marino, con un movimento elegante, ingoia un paio di anatre, e queste, si riallineano, anche se ci sembra durissimo, comprendiamo che in acqua prevale un ordine sociale che le trascende e secondo il quale ogni integrante di quella fauna, contribuisce gentilmente come può.

 

“La politica è un procedimento di ricerca della verità, ma centrata nel collettivo.
Vale a dire, l’azione politica crea verità da quello di cui il collettivo è capace. 
Di cosa sono capaci gli individui quando si riuniscono, si organizzano, pensano e decidono?”

 

Abbiamo bisogno di giovani che assumano il compito di riunirsi, organizzarsi, pensare e decidere. Abbiamo bisogno di un ordine che ci soddisfi e carichi di senso. Restituire la politica al mondo delle idee, allontanandola dal denaro e dagli interessi personali è urgente ma per questo, si richiede uno sforzo enorme in istruzione. Imparare a pensare, vale a dire, uscire dal mio proprio spazio per comprendere lo spazio pubblico che abito, e scegliere cosa dire e cosa fare, richiede istruzione, istruzione, istruzione, istruzione, vorrei ripetere questa parola alla maniera dei poeti sperimentali, ma capiamolo così: per preparare i nostri giovani studenti a sviluppare un pensiero politico, a interpellare le proprie credenze e a interpretare quel ruolo della gioventù così necessario per le società e che oscilla tra il costruire quello che ci da significato e distruggere ciò che ci annienta, è urgente una buona istruzione. Abbiamo dormito nel sonno della società di consumo per troppe decadi, l’arroganza dell’appropriazione, è il momento di ritornare alla penna e alla carta, affinché i nostri ragazzi possano tracciare i loro cammini e proporre una nuova direzione. E per loro, cosa leggere non è indifferente. Per nutrire il pensiero si richiede letteratura pura e dura. Non dimentichiamolo mai.