Galo Ghigliotto è uno scrittore ed editore cileno. Attualmente è il direttore della casa editrice dell’Universidad de Santiago de Chile. Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre su Revista contexto ed è stato tradotto per noi da Luciano Funetta, che ringraziamo.  Foto: © Eduardo Bascuñán Cancino

Venerdì 4 ottobre di quest’anno il Ministero dei Trasporti cileno ha annunciato un nuovo aumento dei biglietti della metropolitana, 30 pesos, portando l’importo del viaggio in orari di punta a 830 pesos (poco più di un euro). Due giorni dopo, le studentesse e gli studenti universitari e degli istituti secondari si organizzano per evadere in massa il pagamento della metropolitana. Orde di studenti che passano sotto i tornelli o li scavalcano per raggiungere le banchine, sotto gli occhi degli impotenti addetti alla sorveglianza. È proprio in questo momento che il Governo cileno commette il primo errore nella gestione della crisi: dispone il presidio degli accessi a tutte le stazioni della Metro, con agenti di polizia armati addetti al controllo del flusso di persone, e promette sanzioni severe per i trasgressori.

Per capire il resto bisogna tornare al passato: alla dittatura di Pinochet e alle sue conseguenze. A differenza di altri paesi, il Cile non ha goduto di un soddisfacente processo riparatorio. La maggior parte dei crimini di lesa umanità perpetrati durante la dittatura restano ancora oggi impuniti e i pochi militari che hanno subito condanne hanno espiato o stanno espiando le loro pene in carceri che sono veri e propri resort. Nessun governo della rinnovata democrazia si è impegnato davvero su questa questione: è una specie di tabù. Così molti familiari di desaparecidos non conoscono, tutt’ora, le esatte circostanze della fine dei loro cari. Un esempio: i resti del giornalista Carlos Berger, desaparecido nel 1973, sono stati ritrovati solo nel 2016: un pezzo di mandibola e un frammento cervicale. Nel giro di qualche settimana, nel settembre dello stesso anno, vennero rinvenuti altri frammenti del suo scheletro. Come i resti di Berger, gli orrori della dittatura tornano alla luce di tanto in tanto, a piccole dosi, senza che venga fatta giustizia per le migliaia di casi come questo. Come se non bastasse, non bisogna dimenticare che Pinochet è morto a novantuno anni, insignito della carica di senatore a vita e omaggiato come ex comandante in capo nell’edificio della Escuela Militar de Chile.

Una ulteriore dimostrazione del perdurare della dittatura è riscontrabile nell’applicazione del modello neoliberale e nella Costituzione del 1980, redatta ad hoc per tutelarlo. Nel corso del suo ultimo mandato, la ex presidente Michelle Bachelet ha appoggiato e promosso diverse iniziative per l’introduzione di una nuova Costituzione. La fine della sua presidenza, tuttavia, è arrivata prima che potesse riuscirci. Con la salita al potere della destra, ogni proposito di riforma è stato accantonato. Nel frattempo il modello neoliberale, che ha prodotto una indiscriminata privatizzazione dei servizi di base, educazione, sanità, fondi pensione, imprese minerarie, acqua e ogni altra cosa potesse essere privatizzata, oltre all’eliminazione di un certo numero di diritti sociali, ha trascinato le cilene e i cileni in una condizione di costante precarietà. A tutto questo si somma il divario salariale: il 10% più ricco guadagna trentanove volte di più del 10% più povero. Il 33% degli indotti dell’economia cilena è appannaggio dell’1% più ricco della popolazione e, a sua volta, il 19,5% finisce nelle tasche dello 0,1% . Il costo della vita è elevato abbastanza da rendere insopportabili ulteriori rialzi arbitrari. Il prezzo medio di affitto di un bilocale a Santiago è di 400.000 pesos (495 euro); il salario mensile minimo è fermo a 301.000 pesos (373 euro). Intanto la stampa fa sapere che le Isapres (Istituti di Previdenza), tutte imprese private, nel 2018 hanno registrato un ribasso degli utili, incassando soltanto 57.200 milioni di pesos (71 milioni di euro).

Entrambe figlie della dittatura, la violenza e la disuguaglianza si manifestano in un altro aspetto della vita quotidiana: il comportamento dei governanti. L’anno scorso il comunero mapuche Camilo Catrillanca è stato assassinato dai carabineros durante un’operazione che sin dall’inizio appare quantomeno sospetta sotto numerosi punti di vista: intercettazioni illecite, telecamere go-pro smarrite e poi riapparse dal nulla, fino ad arrivare al fatto in sé, al momento in cui i militari fanno fuoco senza motivo su un civile disarmato e, circostanza aggravante, accompagnato da un minore. Il ministro dell’Interno Andrés Chadwik, che a causa dell’accaduto avrebbe dovuto dimettersi, si è limitato a incolpare i carabinieri e a sollevare dall’incarico il Generale della polizia fresco di nomina. Inoltre i ministri di Piñera si sono lasciati andare a dichiarazioni che dimostrano in tutta evidenza il disprezzo e la distanza che li separano dal popolo cileno.

A luglio dello scorso anno, l’ex ministro dell’Istruzione Gerardo Varela ha raccontato, durante una chiacchierata, che ogni qual volta il direttore di una scuola di provincia lo interpellava e gli chiedeva fondi per riparare un tetto, lui infastidito gli rispondeva: “Perché non organizzate un bingo? Perché da Santiago dovrei preoccuparmi di sistemare il tetto di una palestra?“. Ad agosto il ministro della Cultura, Mauricio Rojas, è stato costretto a lasciare l’incarico dopo aver definito “una montatura” il Museo de la Memoria y de los Derechos Humanos.  Alla fine del 2018 il ministro della Casa ha assicurato che “un’altissima percentuale di cileni ha una casa, un appartamento, una casetta al mare“, mistificando completamente la realtà del paese. Quest’anno, proprio all’inizio di questo mese, commentando l’incremento zero dei prezzi al consumatore, il ministro delle Finanze Felipe Larraín ha osservato che per “i romantici” era in arrivo una buona notizia, perché “il prezzo dei fiori hanno subito un calo dei prezzi del 3,6%“. Poi è stata la volta del ministro dell’Economia, il quale a proposito dell’incremento dei biglietti della metropolitana ha dichiarato che “i mattinieri saranno aiutati, in modo che chiunque esca di casa prima degli altri e prenda la metropolitana alle sette del mattino abbia la possibilità di usufruire di una tariffa più bassa“.

In Cile questo è stato l’anno dei rincari. Non solo dei trasporti, ma anche dell’elettricità, dell’acqua, del gas, eccetera. Il caso dell’elettricità è interessante: quest’anno la compagnia elettrica che rifornisce Santiago (ENEL) ha imposto ai cittadini l’acquisto di nuovi contatori, e la cosa ha generato non poco malcontento, soprattutto se considerato che il presidente della compagnia – e vicepresidente dell’azienda di servizi sanitari Aguas Andinas – Herman Chadwick Piñera, è fratello del ministro dell’Interno Chadwick e che entrambi sono cugini del presidente della Repubblica Sebastián Piñera.

Altra informazione importante: secondo dati del SERVEL, hanno votato al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2017 (quelle che hanno visto Sebastián Piñera vincere con il 54,57%) il 49% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali in Cile. In altre parole, non si può affermare che Piñera conti sull’appoggio della maggioranza del paese, e la crisi odierna potrebbe esserne una dimostrazione. Durante la campagna elettorale, con il suo slogan “Tempi migliori”, Piñera ha fatto leva sulla debolezza politica del suo avversario, il giornalista e senatore Alejandro Guillier, e della Nueva Mayoría, coalizione di centrosinistra di cui Guillier era rappresentante. La sinistra divisa ha spianato la strada al candidato di destra, tanto che sono in molti a pensare che più che un trionfo di Piñera le elezioni siano state una disfatta della sinistra. D’altra parte, una delle strategie che la destra ha usato per guadagnarsi il voto dei cittadini meno politicamente consapevoli è stata la minaccia, diffusa con maestria, che una nuova vittoria della sinistra avrebbe trasformato il paese in una sorta di “Cilezuela” (una combinazione di Cile e Venezuela).

La paura dell’avvento di questo fantomatico Cilezuela, in qualche modo figlia dell’immagine del governo di Unidad Popular di Salvador Allende diffusa durante la dittatura, ha spinto gli elettori indecisi a recarsi alle urne e votare a favore di un politico ambizioso e discusso come Sebastián Piñera. Che il nome di Piñera fosse accostato a questioni giudiziarie legate all’acquisizione di una banca negli anni Ottanta era questione di dominio pubblico, tanto che persino un senatore della sua stessa parte politica, Manuel José Ossandón – candidato al primo turno – durante un confronto elettorale lo aveva incalzato dicendo che all’epoca era stata “una gentilezza non dichiararlo colpevole”, ossia una scelta inspiegabile.

Ma c’è un’altra questione importante: l’entourage di Piñera, in particolare suo cugino, il ministro degli Interni Andrés Chadwick, è stato un collaboratore di Augusto Pinochet. Nei giorni scorsi ha iniziato a circolare una fotografia che mostra Chadwick da giovane, in piedi subito dietro a Pinochet durante un discorso pubblico ai tempi della dittatura. Come lui, numerosi altri ministri sono stati vicini al governo militare.

L’impiego della polizia nella gestione della protesta studentesca non ha fatto altro che accendere la miccia di un ordigno già piazzato da tempo. I disordini sono iniziati venerdì 18 ottobre, con i roghi appiccati in alcune stazioni della metropolitana e gli incendi che hanno interessato un certo numero di immobili privati, come la sede dell’ENEL, che ha cominciato a bruciare – inspiegabilmente – dall’undicesimo piano. Le immagini dell’ENEL in fiamme hanno letteralmente sconvolto gli abitanti di Santiago. Mentre accadeva tutto questo, il presidente Piñera si gustava placidamente una pizza in un ristorante dei quartieri alti della capitale.

Tra le fila delle manifestazioni circola una frase che riassume piuttosto bene lo stato d’animo che grava sul Cile: “Ci hanno tolto tutto e alla fine ci hanno tolto anche la paura“.

Questa è senza dubbio la crisi più profonda dal golpe del 1973. Le autorità sono in bambola e continuano a rilasciare dichiarazioni vergognose ai giornalisti. Il presidente Piñera ha affermato: “Siamo in guerra“, suscitanto lo sgomento della popolazione e forse imitando istintivamente Pinochet quando, dopo l’attentato del 1986, disse: “Questa è una guerra“. Incalzata da un giornalista, la ministra dell’Istruzione è stata costretta a chiarire come, secondo lei, fosse possibile spiegare le dichiarazioni del presidente a un bambino di nove anni; con grande naturalezza, la ministra è rimasta in silenzio e ha ceduto la parola alla ministra seguente. Per tranquillizzare la popolazione, il generale della Marina incaricato della difesa della città di Antofagasta ha citato, in preda a un lapsus, niente meno che il Chapulín – un personaggio amato dai bambini messicani – e la sua frase ” que no panda el cúnico” (invece di “que no cunda el pánico”, niente panico).

Dopo aver commesso l’errore di impiegare la polizia per sorvegliare le stazioni della metropolitana, in risposta alla mobilitazione dei cittadini, il 19 ottobre il presidente Piñera ha deciso di “gettare benzina sul fuoco” e ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, con la conseguenza che la protesta, fino a quel momento circoscritta alla capitale, si propagasse in altre città, dando vita a nuove manifestazioni in tutto il Cile. A questo punto si è iniziato ad assistere a nuovi atti di vandalismo, saccheggi di supermercati, banche, sportelli bancomat… Lo spiegamento di forze di polizia, concentrato sulle folle di manifestanti e a protezione dei quartieri ricchi, ha lasciato inevitabilmente scoperte le zone più vulnerabili delle città, permettendo alla violenza un’escalation senza precedenti che ha alterato irrimediabilmente l’ordine sociale.

Nel caos, Piñera ha decretato lo stato di emergenza straordinaria e ha incaricato il generale Javier Iturriaga di prendere il comando della difesa nazionale. La presenza dei militari nelle strade ha rievocato immagini minacciose agli occhi di tutti coloro che non hanno ancora superato il trauma della dittatura. Gli animi si sono infiammati ulteriormente. Quando gli viene chiesto se abbia intenzione di proclamare il coprifuoco – altra reminiscenza della dittatura, misura la cui attuazione è esclusivo potere del presidente della repubblica – Piñera risponde che la decisione spetta a Iturriaga. Nel corso della successiva conferenza stampa il generale proclama, per la prima volta dai tempi della dittatura, il coprifuoco nella provincia di Santiago e in altre regioni.

Nel tentativo disperato di porre fine alle proteste, Piñera ha sottoposto al Congresso una legge per sospendere l’aumento dei biglietti del trasporto pubblico. Alla Camera dei deputati la legge è stata approvata con un solo voto a sfavore. Al senato è passata all’unanimità. Naturalmente la cosa non ha placato in alcun modo la rabbia della popolazione.

I media (tv, radio, giornali), per la maggior parte legati a imprenditori vicini alla destra di governo, si sono scagliati contro la protesta, concentrando l’attenzione sugli atti di vandalismo a cui abbiamo assistito in questi giorni. In pochi si sono impegnati a mostrare il problema nella sua complessità. Ogni volta che aprono bocca, le personalità del governo non fanno che ripetere le parole “violenza”, “distruzione”, “saccheggio”, “vandalismo” e già parlano di “ricostruzione”, come se quello che sta accadendo sia una specie di catastrofe naturale. L’opinione pubblica ha bollato come del tutto inetta la gestione della crisi da parte dell’esecutivo, e persino nei quartieri più benestanti, in cui la maggior parte degli elettori vota a destra, si sono svolte manifestazioni in favore della causa popolare e contro le misure disposte dal presidente Piñera.

Solo nel momento in cui i manifestanti hanno iniziato a presidiare le strade fuori dagli studi televisivi, per protestare contro la versione mediatica della crisi, le telecamere hanno smesso di concentrarsi solo sui saccheggi, ma hanno cominciato a mostrare i molteplici abusi di cui i cittadini vengono fatti oggetto.

I cileni ancora ignari hanno capito che gli abusi erano il prezzo della loro esistenza. I social network e internet hanno spalancato una porta sul mondo, fatto che ha permesso di capire che i privilegi che le classi abbienti riservano per loro, nei paesi con la stessa capacità di sviluppo che il nostro sono possibili per tutti.

La classe politica non si è dimostrata in grado di fornire una risposta al risveglio della coscienza sociale. Immediatamente, il Frente Amplio (partito di sinistra) ha chiesto che venisse velocizzato l’iter di legge riguardo al taglio degli stipendi parlamentari. Tuttavia questo non è stato sufficiente. Proprio oggi è stato fatto un tentativo per approvare la legge per ridurre le ore lavorative settimanali da 44 a 40, ma al momento del voto tutti i deputati dei banchi del RN (il partito del presidente) hanno abbandonato l’aula per impedire il raggiungimento del quorum.

Completamente alienato dalla realtà, il governo ha dimostrato di non essere capace di comprendere che l’unico modo per placare i movimenti sociali è cedere su alcune questioni su cui invece non sembra disposto ad arretrare. Il discorso incendiario di Piñera, quando ha parlato di “guerra” e di “un nemico organizzato”, non ha fatto altro che agitare gli animi; soltanto negli ultimi giorni sembra si sia deciso a moderare i toni, anche se in realtà continua a non proporre altro che soluzioni provvisorie ai problemi sollevati dalla popolazione, e a parlare di “necessità di un enorme investimento di risorse statali, che richiederà ancora più efficacia e ricollocazione delle risorse a disposizione”.
In questo modo, a dire il vero, Piñera continua a non toccare gli interessi degli imprenditori, i cui privilegi continuano a essere una delle ragioni del malcontento del cileno medio. E ancora peggio: le proposte del presidente comporterebbero una maggiore pressione fiscale che finirebbe per danneggiare le piccole imprese.

Piñera è riuscito nel doppio intento di riconsegnarci all’atmosfera di caos, violenza e instabilità che i nostri genitori e i nostri nonni, qualunque fosse la loro identità politica, rievocavano quando ci parlavano dell’epoca di Allende e Pinochet. Forse è per questo che oggi è possibile individuare una certa unità tra esponenti di destra e di sinistra, che sembrano condividere l’opinione che questo governo sia giunto alla fine, che la sua prosecuzione sia ormai insostenibile, tanto che già si parla di violazioni costituzionali a carico di Piñera e del suo esecutivo.

Il numero dei morti, di cui il governo si rifiuta di pronunciare i nomi e di cui continua a non spiegare le circostanze dei decessi, aumenta ogni giorno. Fino a ieri (Rapporto INDH al 22-10-19, ore 22:00) l’INDH (Istituto Nazionale per i Diritti Umani) contava 1.894 detenuti, tra cui 214 bambini, bambine e adolescenti (140 bambini, 39 bambine), e 388 donne adulte. Si contano centinaia di feriti e ci sono donne che hanno denunciato abusi sessuali subiti durante la detenzione. Una detenuta ha denunciato i militari di avere minacciato di violentarla con un fucile.
Ci sono 269 persone ferite, “molte delle quali riportano ferite agli occhi a causa dell’impatto di proiettili di gomma”, e 137 persone ferite con armi da fuoco. Ieri siamo venuti a conoscenza del caso di Víctor Marileo, che stava osservando la repressione militare dal giardino di casa nel quartiere di Bajos de Mena, uno dei più poveri di Santiago, quando è stato raggiunto da un proiettile sparato da un fucile.
Alla televisione sua moglie ha raccontato di aver chiesto aiuto senza che nessuno accorresse e che i militari avevano minacciato di spararle se fosse uscita di casa. Aveva dovuto chiamare suo figlio, residente nella città di Linares, a 300 chilometri dalla capitale, il quale si era precipitato a Santiago ed era arrivato sul posto addirittura prima dell’ambulanza richiesta dalla donna. A proposito dell’accaduto il generale Iturriaga ha parlato di “una cosa spiacevole, ma di entità minore“. Oggi Marileo si trova in coma farmacologico e i medici parlano di recupero improbabile.

A tutte queste vittime si sommano i 15 morti che il governo ha riconosciuto fino a ora. Cinque di loro sono morti per mano dello stato.  Uno di questi è José Miguel Uribe, un giovane di venticinque anni, residente a Curicó, colpito da una raffica sparata da un camion militare.

Senza dubbio, a essere irrecuperabili sono la governabilità del paese e la carriera politica del presidente Sebastián Piñera. Mentre tutto questo accadeva, il presidente cileno si preoccupava di assicurarsi che il suo collega nordamericano Donald Trump non mancasse al summit dell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), in programma per novembre a Santiago. A dicembre, invece, avrà luogo la COP25 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici).

Sono molti gli eventi mondani a cui il presidente è atteso: la premiazione degli studenti più meritevoli della prova di selezione universitaria (PSU), cerimonie di premi letterari, visite di diplomatici stranieri eccetera. Come farà il presidente cileno a ricevere i suoi ospiti internazionali con 15 morti accertati solo nelle ultime settimane del suo governo? Cosa racconterà alla PSU quando gli chiederanno del suo operato? O semplicemente: cosa dirà al popolo del paese quando verrà resa nota la cifra ufficiale di morti e feriti registrati durante la crisi?

La vera tragedia del Cile non sono i saccheggi che i telegiornali hanno mostrato con tanta ostinazione, ma l’indolenza di una classe politica e imprenditoriale assuefatta ai suoi privilegi e abituata a usare la forza per difenderli. L’immensa distanza che separa la realtà degli attuali governanti e quella del popolo cileno fa sì che il governo sia totalmente incapace di comprendere la profondità di ciò che sta accadendo e, di conseguenza, di risolvere la crisi odierna. Il corollario perfetto di questa affermazione è un audio, che ha preso a circolare nelle ultime ore, in cui la moglie del presidente, Cecilia Morel, dice chiaramente “ci hanno sopraffatti”, che la situazione è come “un’invasione aliena” e che “saremo costretti a ridimensionare i nostri privilegi e a dividerli con gli altri“.

Al momento sembrano esserci soltanto due soluzioni praticabili: o il presidente Piñera si impegna a stringere un patto sociale con la società civile del suo paese, con l’introduzione di una nuova Costituzione, oppure abbandona la nave e lascia campo libero per nuove elezioni che permettano a tali condizioni di realizzarsi. Qualsiasi misura alternativa sarà solo provvisoria, e sarà solo questione di tempo, prima che si verifichi una nuova detonazione sociale, ancora più forte di questa.

*Nel frattempo il governo ha riconosciuto la morte di altre tre persone, una delle quali assassinata dalla polizia, stando a quanto comunica il Sottosegretario del ministero degli Interni.