Il Cile, che si affaccia per 4300 km sul Pacifico, è il paese più lungo del mondo; è scosso dai terremoti nella “cintura di fuoco”, ha vasti ghiacciai ai suoi piedi, è attraversato dal deserto – con una delle zone più aride del mondo nel nord – ma è anche pieno di acqua, che scorre nei fiumi, si riposa nei laghi e accoglie i pesci, le isole e l’orizzonte del mare. Norte Grande, Norte Chico, Zona Central, Zona Sur e Zona Austral sono i nomi delle cinque aree in cui si divide il paese, ciascuna con il suo peculiare carattere.
Meta di geologi e naturalisti, turisti e imprenditori, il Cile non cessa di stupire. Ma come la natura passa qui da un estremo all’altro, così anche la vita delle popolazioni che lo abitano ha qualcosa di radicale. Larga in media soltanto 200 km, questa striscia di terra stiracchiata tra climi diversi a molti ricorda un’isola: con l’Oceano da un lato e la Cordigliera delle Ande dall’altro, è una terra di estremi in cui niente entra o esce facilmente.
Molte cose sono accadute qui nella totale ignoranza del mondo al di fuori e, spesso, anche dei mondi al di dentro. Questi paesaggi di straordinaria bellezza hanno visto svolgersi una storia di altrettanto straordinaria violenza. Non è possibile raccontare questa storia senza parlare degli spazi in cui ha avuto luogo, così come non è possibile esplorare le vastità del paese senza prendere in considerazione il loro stretto rapporto con gli esseri umani che le hanno percorse, abitate, sfruttate, ma anche protette. Per questo, in occasione dell’uscita in Italia dell’ultimo capitolo della splendida trilogia di documentari del regista cileno Patricio Guzmán, La cordigliera dei sogni, dopo Nostalgia della luce e La memoria dell’acqua, abbiamo parlato della relazione tra esseri umani e ambiente con il direttore artistico del Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Triste Rodrigo Díaz.

In La cordigliera dei sogni Guzmán ricorda come da giovani, contrariamente a oggi, lui e i suoi compagni non fossero interessati alle montagne, poiché non apparivano loro rivoluzionarie. Quello che vediamo oggi accadere in Cile, invece, ci mostra come il legame con il territorio possa rappresentare qualcosa di davvero rivoluzionario. 
Guzmán si è concentrato su alcuni aspetti in particolare e racconta quella verità. Non può raccontare i processi in atto per intero ma ha un linguaggio cinematografico straordinario che fa sì che il senso profondo possa essere compreso a Shangai come a Roma, e per questo è il miglior documentarista latino-americano. È universale, a partire da ciò che nella vita lo ha segnato: il colpo di stato dell’11 settembre ’73. In questo film, riscatta la maturità del popolo cileno in materia ambientale, consapevolezza che nel resto del continente non è altrettanto diffusa. Il disegno neoliberale, infatti, prevale dal Messico alla Patagonia. Ci sono voluti più di quarant’anni per superare questo disegno politico ed economico. La destra e parte del centro lo hanno navigato bene, convinti che non sarebbe mai cambiato. Ma oggi la Presidente della Costituente è un’accademica mapuche che al discorso inaugurale ha parlato la sua lingua nativa, il mapudungun. Le élite politiche ed economiche non avevano assolutamente previsto quello che stava per succedere.
È vero che il Cile di oggi ha il popolo con la più grande sensibilità ambientale del continente. Questa sensibilità non è stata frutto del dibattito internazionale, ma è conseguenza del disegno economico che ha privatizzato l’acqua, ha distrutto il Sud ricco di plancton con le multinazionali del salmone, ha ignorato i parchi naturali, sostituito gli alberi secolari con piantagioni a crescita rapida. È stato un processo lungo trent’anni, fin quando si sono accorti che, per esempio, l’avocado ha diritto all’acqua ma non ce l’hanno gli esseri umani. C’è stato un caso esemplificativo in questo senso: la città di Petorca si trova a valle di una piantagione di avocado. I proprietari hanno bloccato l’acqua e la città è stata costretta a rifornirsi con i camion. In tempi di virus, quando ti lavi di continuo, è una situazione drammatica. Hanno bloccato i fiumi per irrigare chilometri di piantagione dello stesso avocado che poi mangiamo felicemente sulle nostre tavole in Europa.
L’Assemblea Costituente dovrà riportare l’acqua all’interesse pubblico e non al profitto dei privati. Un solo municipio oggi ha l’acqua pubblica. Per questo dobbiamo ringraziare il modello neoliberale introdotto da Pinochet e mutuato dalla Scuola di Chicago e dal suo esponente e vincitore del Premio Nobel Milton Friedman. Il grande capitale ha sempre usato il Cile come cavia.
 
Il documentario secondo Guzmán è un’opera complessa, in cui più ancora che offrire informazioni il regista porta avanti una riflessione a partire dalla connessione tra oggetti apparentemente lontani, come il mondo naturale e la storia politica del paese, che nel primo trova senso e significato.
 In Messico e in Colombia, in Argentina, senza trascurare il Brasile, c’è sempre stata attenzione e sensibilità al mondo originario. E quando vai a fare un documentario con diverse etnie, inevitabilmente l’ambiente viene fuori. Non conosco etnia in America Latina che non viva un rapporto strettissimo con l’ambiente. Tutte le loro battaglie storicamente sono state dirette a tutelare il loro mondo. Perfino il linguaggio ambientalista contemporaneo è nato in Brasile.
Ciò che Guzmán rappresenta nelle ultime opere sposa la volontà politica della maggioranza del suo popolo. Il Cile ha un’occasione storica di riportare il paese a una società con un impianto economico sostenibile, e lo può fare perché risponderà per la prima volta alla decisione della maggioranza della gente. Patricio non fa altro che una fotografia in movimento, con la sua sensibilità, il suo linguaggio e la sua lontananza, perché la lontanaza dal paese può anche essere positiva, permettendoti di vederlo nell’insieme. 
 
Guzmán parla molto di memoria, quella di chi è arrivato a distorcere gli eventi e a dimenticarli per renderli più accettabili, ma anche quella di chi sembra essere rimasto bloccato, quasi con nostalgia per quel passato drammatico. Dall’altra parte ci sono le montagne, mute e durevoli, e la voce narrante del regista si domanda cosa racconterebbero se solo avessero una voce per farlo. Viene da chiedersi se non sia una ricerca disperata, la sua. La cordigliera ha attraversato la Storia ma non può comunicare. Qual è il valore del documentario, secondo lei, in un contesto come questo, in cui si tace e si occulta ma si rischia anche, altrimenti, di perdersi in una spirale?
Senza memoria è difficile creare una condizione di stato di diritto in un paese con quel trauma. Il Cile ha vissuto questa contraddizione fino a oggi perché una minoranza con molto potere nei tribunali di giustizia, nella comunicazione, ha sempre portato avanti un pericoloso negazionismo, insistendo perché si andasse avanti come se nulla fosse successo. Ma non si può vivere il futuro pensando di partire da zero. In Cile non si è ancora punita la criminalità orrenda che ha fatto fuori la democrazia perché non rispondeva ai suoi interessi. Non si rompe mai il muro dell’omertà, e le poche volte in cui si apre una fessura viene fuori un inferno. Molti si sono suicidati, anche senza essere stati scoperti, solo per il peso della coscienza. In Europa ho imparato l’importanza della memoria e da certa cultura ebraica l’importanza di ricordare con sobrietà e senza propaganda.
In Cile il cinema documentaristico riprende la memoria come elemento centrale ma non al livello degli amici argentini. In Argentina sono stati prodotti forse cinquecento documentari sulla dittatura, in Cile circa un quinto di questi.
In Cile il disegno economico perverso ha bloccato le classi sociali, configurando un sistema piramidale per cui chi ha più soldi ha la migliore formazione, chi ne ha meno riceve invece un’educazione modesta, che non può competere con chi a dodici anni parla tre lingue. Il Cile è un paese tradizionalmente classista. L’Assemblea Costituente rompe questa composizione piramidale della società. Molti componenti hanno un’origine modesta e hanno compiuto sacrifici enormi per formarsi. La destra non può contestare la qualità professionale dei membri. La mapuche Elisa Loncón, attuale Presidente dell’Assemblea, è una docente e appartiene all’unico popolo che non è mai stato sconfitto dagli spagnoli. Dobbiamo essere orgogliosi di questi popoli originari. Quando nell’ottobre del 2019 la gente si è ribellata e un milione di persone ha riempito le piazze, sventolavano insieme le bandiere cilena e mapuche. È stata una convergenza di idealità, di volontà di cambiamento, di sogni. Sapevano che la maggioranza può cambiare il paese, cosa che dà l’idea del tasso di democraticità. Il Cile può sicuramente tornare a sognare con la Costituente, come non accadeva dai tempi di Allende.

Può parlarci del Festival? Cosa si aspetta per il futuro?
 Non sono uscito dal Cile per ragioni cinematografiche, sono uscito per ragioni politiche. In Italia ho cominciato a farmi tante domande sul mio futuro. Quanto resterà al potere Pinochet? Quanto tempo rimarrò in Italia? Sarò sempre straniero o ho la maturità sufficiente per fare mia questa cultura?
Nel giro di qualche anno, con il fondamentale appoggio delle Acli, è nato il Festival. Volevo tutelare la mia identità e il cinema me lo permetteva. Volevo poi che anche altri vedessero in quest’occasione la possibilità di tutelare la loro identità. Oggi abbiamo una cineteca di circa 30mila film e una cineteca online con 5mila titoli.
Nel frattempo, portiamo avanti una stretta collaborazione con l’università. Formiamo gli studenti e loro contribuiscono alla realizzazione del Festival sottotitolando i film. Attorno a me sono quasi tutti neolaureati, molto staff viene direttamente dalla scuola per interpreti. Ho conosciuto la direttrice organizzativa del Festival quando aveva 24 anni e, oggi, ne ha 34. Mi ero accorto subito che poteva camminare con me in questo progetto, oggi senza di lei farei davvero molta fatica a gestirlo. Abbiamo però bisogno di più gente da formare come operatori culturali.
Il Festival di Trieste da quest’anno si chiama Ibero-latino americano in virtù del nostro legame con la Spagna, che ha dato segnale di volerci essere perché vede che è un evento con un progetto serio e rigoroso. Noi abbiamo accolto questa volontà e quest’anno ci sarà una retrospettiva su un regista spagnolo.
Il sostegno delle istituzioni è molto importante, a prescindere dal contributo economico. È importante che i latino-americani vedano che non siamo soli. Le istituzioni in Italia finanziano l’evento ma non c’è fino in fondo contezza del tempo e della competenza necessari per realizzarlo. È importante capire che la promozione del cinema latino-americano a Trieste è anche la promozione dell’Italia in America Latina.