D’estate sembra un innocente filo di fango che attraversa la capitale, un flusso di neve resa torbida dal cioccolato amaro, che d’inverno straripa, senza conoscere limiti, come una serpe sguaiata che con la sua turbolenza rade al suolo le case dei ricchi e dei poveri che sorgono sulle sue sponde. Perché questo fiume, simbolo di Santiago, si cala dalla cordigliera fino al mare, tagliando la smilza mappa del Cile in due metà, e nel suo percorso nervoso, attraversa tutte le classi sociali che compongono l’urbe. Dalle altezze di El Arrayán, dove gli hippy coi soldi hanno installato la loro tribù ecologica e marijuanera, le loro casette da spiaggia, con la piscina e l’ampia terrazza per guardare il fiume in posizione yoga o meditazione trascendentale. La comunità naturalista, dove le signore hippy con bebè biondi dal culetto nudo preparano formaggi di soia e ricette macrobiotiche mentre ascoltano musica New Age. Tutte ispirate dalla precordigliera di colline e canyon, e dal rumore del Mapocho che porta con sé nella corrente i loro dolci profumi di sandalo, incenso e patchouli fino a mescolarli, più giù, con la cacca nera dei poveri. Forse, questo Mapocho che chiamiamo fiume, è solo un flusso lercio che non c’entra niente con l’idea di verde pozza e acque cristalline, come parrebbe dalle foto di Welcome to Santiago. È il contrario delle immagini turistiche dei fiumi d’Europa.

Pedro Lemebel, scrittore e artista cileno, icona del post-dittatura e coscienza critica di un paese ancora oggi in cammino e in transizione, perché mai e poi mai, in nessun luogo, in nessun caso, in nessun tempo, ci si può concedere il lusso di dare per scontati beni come la democrazia o la libertà, ventun anni fa pubblica per la prima volta il volume che ora arriva in Italia per la sempre meritoria EdicolaDi perle e cicatrici, una tragicommedia umana, un bestiario fatto di settanta sublimi e ora ferocissime ora pietose e dolci cronache compilate per il programma radiofonico Cancionero di Radio Tierra, che dando piacere inducono alla riflessione. Traduzione di Silvia Falorni.

 

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