Oggi vi parliamo d’amore, ma non di amore romantico. C’è un altro genere di legame, infatti, che come quello celebrato a San Valentino tende agli estremi, dall’idealizzazione più accecante alla mostrificazione più brutale. Un tipo di relazione su cui sembra che la società abbia molto da dire, tra regole, aspettative, facili giudizi, rappresentazioni lontane dalla realtà. Stiamo parlando di maternità, intorno a cui si accumulano e annodano pressioni e fantasie spesso soffocanti, tanto per le madri quanto per i figli. E come per ogni tema centrale in una cultura, sono tanti anche i tabù: dall’aborto alla violenza, fino all’abbandono. E proprio l’abbandono dei figli è al centro di Territorio di fuga, il romanzo di Sara Bertrand tradotto per noi da Giulia Giorgini.
Lili è la più grande di tre fratelli, legge Tolkien e Lovecraft, corre in bici per le strade del quartiere e scopre le prime avvisaglie d’amore con Luc, il suo compagno d’avventure. Con il suo sguardo di bambina racconta la propria infanzia: il rapporto con i nonni e i fratelli, con un padre affacciato dai margini del suo piccolo universo. Soprattutto, la fuga della madre, una donna inquieta, alla perenne ricerca di sé, che decide di lasciare i figli per unirsi alla setta di Osho. Una storia familiare guidata da una forza centrifuga, una bambina e i suoi due fratelli nell’occhio del ciclone. Abbiamo intervistato l’autrice per voi. E con lei abbiamo parlato di corpo e modi della conoscenza, di eredità difficili da gestire e legami tra le generazioni, di falsi miti e profonde consapevolezze carnali. Perché le cose, quando si va al cuore, non sono mai semplici.

Perché la fuga? Cosa spinge tutti questi personaggi a fuggire? 
La fuga, dal punto di vista simbolico, mi sembra un argomento interessante da affrontare: parlo cioè di come, a volte, la psiche non sia in grado di affrontare ciò che la ferisce o da cui si vuole liberare. Non è in grado di affrontare il trauma e, tuttavia, trova la forza per uscire da quell’angusto spazio emotivo che le sta nuocendo. 
Il caso della madre di Lili, che abbandona i propri figli per andare alla ricerca di qualcosa che ritiene necessario per se stessa, ci mette in una posizione scomoda, perché le madri – si crede – sono riconoscibili dal loro esserci, dal restare. Essere madre, in un certo senso, vuol dire rimanere, anche se la maternità è un’impresa talvolta distruttiva e che richiede davvero moltissima energia. Generalmente associamo la maternità alla bellezza e a una sorta di pazienza senza fondo: quella di una madre insieme alle sue figlie e ai suoi figli può apparirci come l’immagine stessa della dedizione e del trasporto, ma in realtà quello che stiamo guardando è uno spazio dominato da tensioni, niente affatto estraneo all’oscurità, al male più temuto, e forse, alla fine, quando le figlie e i figli crescono, quello con l’immagine della madre diventa uno dei dialoghi interni più sfidanti. 
Le madri sperimentano un continuo passaggio tra un amore smisurato e un’irritazione permanente, perché quella di madre non è un’identità univoca, come ci hanno voluto far credere nei secoli con la storiella felice raccontata dai figli maschi di queste stesse madri, gli artefici del canone culturale. La voce altisonante degli uomini ha immortalato e perpetuato all’infinito, cercando di inculcarcela, l’immagine delle loro madri in casa. Ma la realtà ne è molto lontana. Per qualsiasi donna che si avventuri nell’impresa della maternità, essa, piuttosto, si avvicina molto al volgere lo sguardo sull’oscurità della propria madre per scoprire, alla fine, l’oscurità dell’essere madre a propria volta.

Nel romanzo c’è anche il tema del corpo. Cosa significa per te scrivere del corpo? Qual è il suo posto nella tua narrazione?
Tendiamo a separare la conoscenza che riceviamo dal nostro corpo fisico da quella che proviene dal corpo spirituale e intellettuale, ma è una separazione arbitraria e inefficace, immagino influenzata dalla cultura giudaico-cristiana. Nella cultura occidentale non siamo abituati a mettere in relazione la conoscenza con il corpo fisico, come se questo fosse un semplice contenitore, o una materia instabile e reattiva. Ma non è così. Il nostro corpo raccoglie continuamente esperienze, tra ciò che facciamo e ciò che tralasciamo di fare, e di solito è estremamente intuitivo rispetto a ciò che ci fa male. Se ci abituassimo ad ascoltarlo, probabilmente vivremmo una vita più sana, avremmo meno relazioni tossiche e saremmo più connessi con l’interno (il nostro mondo interiore) e con l’esterno (il mondo naturale o animale).
Mi sembra interessante, quindi, osservare come ci relazioniamo a partire dal corpo, e l’adolescenza è un periodo unico da questo punto di vista, perché il risveglio sessuale è un momento in cui il corpo è decisivo, centrale, è lì che avviene il processo fondamentale di questa fase. Lili, la protagonista, racconta questa transizione, in cui lasciamo lo spazio sicuro dell’infanzia, i giochi, la casa, per “uscire” nel mondo esterno. È una vertigine, una trasformazione dominata da una rivoluzione fisica, in cui il corpo guida la relazione con il mondo esterno, e allora iniziano le domande: piacerò? Che tipo di ragazza diventerò? Come sarà il mio rapporto con gli altri? Perché lei (l’altra) sembra stare meglio di me? E in ognuno di questi dubbi, in ogni fase che determina questo passaggio dall’infanzia alla giovinezza, il nostro corpo ci costringe a guardarci, a definirci, a riflettere su ciò che vogliamo raggiungere e fare di noi stessi.

Lili, la protagonista, si trova sin da bambina al centro di rapporti e dinamiche familiari che la precedono e la superano, che lei cerca di tenere insieme, sotto controllo, ma che inevitabilmente finiscono per sfuggirle di mano. Tanto che la sua storia diventa una storia multigenerazionale. Che ruolo ha per te la memoria familiare nella vita di una persona?
Come dice José Castellanos Moya: “combatti contro la tua eredità, morirai in ogni caso e i guerrieri muoiono combattendo”. Negoziare le narrazioni, scrivere la nostra storia a margine di quella delle nostre madri, delle nostre nonne, delle nostre bisnonne e così di seguito, in una catena infinita di traumi, assenze, ferite e colpi, può creare molta confusione. Le letture sono dissimili, ma la storia c’è, esiste, e volenti o nolenti la ereditiamo. Riceviamo una storia e quella storia ci dà un mandato – “sii questo”, “sii quello” – e solo attraversando la nostra memoria familiare, e così trovando la nostra propria storia, possiamo essere persone nel senso più ampio e completo. E più personale.

Tratti un tema tabù: l’abbandono dei figli da parte della madre. La madre di Lili, infatti, cerca una via di fuga, cerca di emanciparsi dalla sua famiglia – di origine e di destinazione – e dal ruolo che si trova assegnato. Allo stesso tempo, questo abbandono segna profondamente i suoi figli. Questa è la ferita in cui si raccolgono tutte le altre. Puoi parlarci di questo aspetto al centro del romanzo?
La maternità è un’esperienza travolgente. Forse è l’origine di tutto. Una volta che si è madre non si può smettere di esserlo. Si possono trovare scorciatoie, disinteressarsi, anche prendere le distanze, ma la vita di una donna cambia per sempre e radicalmente con l’esperienza della maternità. La vita diventa improvvisamente un susseguirsi di faccende domestiche – quanta energia ci viene dedicata – e piangi tra le pentole, tra i cambi del bambino, chiusa in bagno o in cucina, perché le cose non sono per niente come ti aspettavi e la realtà cambia in maniera tale che la clamorosa presenza di quella figlia o di quel figlio si impone e ti reclama a ogni tuo movimento. Capisci di dover compensare le ore di assenza con altre in cui offri una presenza concreta, e prima risolvi questa equazione meglio vivi l’esperienza.
Ma la maternità è anche una forma di eredità a cui prestare ascolto, con attenzione, perché non inizia con l’atto fisico del parto: in quel momento si rivela soltanto e la madre capisce di essere depositaria di una tradizione. Tutto questo mentre la società, la tua cerchia più intima, nutre aspettative precise su come dovresti comportarti. Ma cosa significa davvero essere una buona madre?
Non è una domanda casuale. È, anzi, una questione che dobbiamo assolutamente porci, ma sembra che il cosa sia la maternità non vada messo in discussione, che sia un fatto ovvio e risaputo, e qui sta il problema: ogni divergenza viene silenziata, perché sulla maternità pesa un mandato brutale. E le madri che, come quella di Lili, decidono per se stesse, vengono passate sotto giudizio senza alcun riguardo. Nessuno vuole vedere, nessuno vuole sapere: preferiamo metterle a tacere. Queste esperienze vengono silenziate perché mettono in discussione la maternità come istituzione. Con questo tabù ci si lascia ingannare da un mandato sociale per cui poi non si vivono le esperienze a proprio modo.

C’è una cesura brutale tra la Lili bambina e la Lili adulta, che si riflette anche nelle loro voci. Hai scritto molti libri per l’infanzia: quali sono per te le principali sfide del crescere e quali le sfide del narrarle? Come hai cercato le due voci? 
La principale sfida dell’infanzia, immagino, è quella di sopravvivere. Sembra una cosa estrema da dire, dalla tranquillità della nostra età adulta o dalla comodità delle nostre case, ma tendiamo a dimenticare che una grande maggioranza di bambine e bambini vive in situazioni precarie e, nonostante questo, loro continuano a raccogliere informazioni su tutto ciò che li circonda, imparano, vivono con i sensi accesi, perché hanno bisogno di assorbire ed elaborare il mondo che li circonda. E mi sembra che questo sia un bel modo di accompagnarli: la scrittura da una parte e la lettura dall’altra sono modi di tradurre questo mondo gigantesco e minaccioso in parole accessibili, in storie che le bambine e i bambini possano sentire vicine senza che li sopraffacciano, in modo che possano esplorare difficili aspetti di sé e della propria esperienza, dare un nome a quelle zone oscure, come accade nelle fiabe.
Scrivere per le bambine e i bambini presuppone, per me, un esercizio di ascolto, perché se l’infanzia è un momento di grande creatività questo modo di guardare il mondo si perde con gli anni. Anche se quando si è giovani non si ha paura di parlare, con la crescita farlo implica prendere una posizione, esprimere un’opinione, perdere una certa spontaneità della conoscenza. Ho mostrato queste diverse forme di pensiero ed espressione in Territorio di fuga: due modi di tradurre il mondo, due modi di dire e di tacere.