Tratto da Di perle e cicatrici, di Pedro Lemebel (traduzione di Silvia Falorni)

Il volto di una donna in una fotografia è talvolta immerso in un’atmosfera vaporosa che poetizza la scoperta della sua presenza confinata e immobile sulla carta. Invece, il volto di una donna ripreso in televisione implica un movimento nevrotico, un’immagine tremula resa inquieta dallo sbattere epilettico delle ciglia che ritocca continuamente la cosmesi della sua apparizione sullo schermo. E forse, quella sensazione di trovarsi di fronte a un volto elettrificato, potrebbe essere il motivo per ricordare Karin Eitel, per vedere ancora, con lo stesso brivido, la sua faccia tremolante sullo schermo di Canal 7, nel notiziario familiare per tutti gli spettatori. Il suo volto giovane, dritto nel vetro luminoso del video. Il suo volto scelto come monito, assolutamente dopato dalle droghe che le iniettò la CNI perché leggesse pubblicamente la lettera del suo pentimento. Un foglio bugiardo, scritto da loro, dove Karin rinnegava il suo passato nel Frente Patriótico Manuel Rodríguez. Nell’ebrezza confusa dei barbiturici, smentiva le flagellazioni e i soprusi nelle carceri segrete della dittatura. Quei quartier generali dell’orrore nelle vie Londres o Borgoño. Quelle case dai tetti alti dove l’eco delle grida rimpiazzava la visione coperta dalla benda. Case vecchie in quartieri tradizionali, sparse per una Santiago dissonante per il latrato-mitraglia della notte spavento, la notte golpe, la notte crimine, la notte metallica dell’arare la paura in quelle strade spinose degli anni Ottanta.
L’apparizione di Karin sul canale nazionale, quella sera, aveva lo scopo di negare le denunce di violazioni dei diritti umani nel Cile dittatoriale, per questo misero in piedi la scena patetica della sua confessione televisiva. Per questo Karin continuava a leggere, e nella sua voce narcotizzata, raccontava un copione falso che tutto il paese conosceva a memoria. Dal suo tono tranquillo, imposto dai criminali che stavano dietro alle telecamere, trasparivano le botte, il pugno cieco, il colpo all’inguine, la caduta e il graffio sulla faccia tappato con il trucco. In quella voce estranea al personaggio ripreso, prendeva forma un coro di mai più e mai più pungolati dagli aghi della corrente, il pungolo elettrico che le irrigidiva gli occhi, lasciandoglieli aperti come una bambola tesa imbastita di iniezioni. Come una bambola senza volontà, obbligata a rimanere con gli occhi fissi, truccati da puttana (come con rabbia le avevano conciato le palpebre di azzurro e nero). I suoi occhi appena riaperti al mondo esterno, dopo tanti giorni di prigionia nell’oscurità, dopo quella lunga notte con gli occhi forzati, aperti per indovinare il colpo a man salva. Gli occhi orribilmente fuori dalle orbite aperti a quel niente, a quella flanella, a quel cencio della benda come tendaggio funebre, anch’esso aperto alla selva nera della vessazione. E dopo tanta oscurità e ricerca e denuncia, gli occhi di Karin senza espressione, completamente spalancati per la televisione cilena, per la famiglia cilena che prende il tè all’ora del notiziario.
Forse, sono pochi quelli che conservano nella memoria questa immagine di crudeltà ad alto rating del passato recente. Siamo in pochissimi ad aver imparato da quel giorno a vedere la televisione ad occhi chiusi, come se ascoltassimo instancabili la dichiarazione di Karin che si pente a frustate della sua militanza, della sua rovinosa militanza, rossa come il copihue, il fiore nazionale che tremava coagulato nel rossetto sulle sue labbra, nello scarabocchio da pagliaccio che le misero come bocca, nella crosta a forma di cuore disegnata sulle sue labbra dal trucco della paura. La sua bocca contratta dal mai, ma quel mai anestetizzato, esaurito dalla quantità di volte che dovette ripeterlo prima di filmare, quel mai obbligato dal colpo con il calcio del fucile sotto la manica e fuori campo, quel mai sfinito dal capogiro senza fine delle scariche, quel mai sostenuto dal bicchiere d’acqua che le dettero perché rimanesse in piedi, quel mai morso fino a condire la lingua con il gusto opaco del sangue, quel mai consegnato al paese nell’immagine composta, sfregiata dal trucco e vestita da brava bambina per negare la rabbia, per falsificare di trucco le occhiaie violacee e gli ematomi guadagnati nell’oscuro tunnel dell’incancellabile CNI. Forse, ricordare Karin nel calendario della televisione degli anni Ottanta, può permetterci oggi di visualizzare la sua vita lacerata da questi eventi, sapere che è stata l’unica studentessa della Universidad Católica a non poter riprendere i propri studi di traduttrice. Come se la punizione si ripetesse in eterno, in un film senza fine per le vittime dell’umiliazione. È possibile che le poche notizie che ho di Karin non mi permettano la serena oggettività per raccontare questo evento; inoltre, il riconciliato sopore di questi giorni altera la mia penna e continuo a vedere Karin che trema nell’acqua dello schermo, sommersa sempre più in basso nella storia, sempre più annebbiata dall’oblio, che muove lentamente la bocca nel mai pentito calvario del suo fiore guerrigliero.

 

Karin Eitel – omaggio a Pedro Lemebel 

 

Un ringraziamento a Slavina per l’omaggio video a Pedro Lemebel e a TerraNullius per aver pubblicato in anteprima la cronaca che avete appena letto, accompagnata dall’appendice Lemebel in mansarda, che potete leggere qui