Alle 22 ricordate di tirare indietro gli orologi al 1973. Lola Larra è una scrittrice e giornalista cilena. Dopo il colpo di stato del 1973 la sua famiglia si è trasferita in Venezuela. Nel 2006, proprio negli anni delle prime proteste studentesche, è tornata in Cile per raccontare il ruolo degli studenti nella tutela del bene comune. Oggi la storia si ripete. Il suo contributo è stato tradotto per noi da Sara Papini, che ringraziamo. La foto è tratta dal profilo Instagram @paz.pachy di Pachy Paz.

L’ho visto per la prima volta una settimana fa, al sesto piano di un edificio che si trova due strade più in giù. Venerdì scorso, è uscito sul balcone e ha cominciato a battere una pentola. Era l’unico a manifestare, quella sera, in quel quartiere di classe, diciamo, medio borghese. La sua figura nera, in controluce (alta, sottile, che colpiva ritmicamente la pentola) era provocatoria, orgogliosa, anche orfana.

Tutti avevamo avuto una giornata particolare: più traffico del solito, strade interrotte e fiumane di gente che si spostava a piedi perché la linea metropolitana della città era paralizzata, invasa dai lacrimogeni della polizia e incendiata dalle molotov di quei vandali non ancora identificati, soprannominati il lumpen, il sottoproletariato, una parola obsoleta, pronunciata con prepotenza classista, ripetuta ancora e ancora per tranquillizzarci, come se il sottoproletariato fosse quella delirante invasione aliena a cui aveva fatto riferimento la first lady in un audio filtrato ore dopo; come se loro, il sottoproletariato, non facessero parte della nostra società.

Ma fino a quel momento era stato soltanto un giorno insolito, passeggero, pensavamo. Che cosa poteva accadere di così estremo in questo paese indenne, isolano, esempio del trionfo del neoliberalismo in America Latina? Eppure, forse lui aveva colto dei segnali, forse stava per succedere qualcosa di diverso. E per quella ragione suonava la sua pentola da solista.

Sabato ci siamo svegliati facendo congetture, domande, affrettando ipotesi, mettendo in dubbio certezze. Lui annaffiava le piante mentre la televisione lampeggiava in salotto. E così abbiamo trascorso la giornata. Guardando notizie. Ascoltando la radio. In attesa. In attesa che qualche responsabile ci spiegasse qualcosa di più oltre ai saccheggi. Ma nel pomeriggio, quando finalmente è apparso il presidente assente, si è trattato soltanto di alcuni minuti, e soltanto per delegare la responsabilità a un militare dal lignaggio pericoloso, che a sua volta ha annunciato malvolentieri il coprifuoco, un’infamia che questo paese non viveva dalla dittatura.

Pochi minuti dopo, un utente su Twitter ha scritto: “Alle 22 ricordate di portare indietro tutti gli orologi al 1973”. E lui, quella sera, non era solo. Tutti nel suo palazzo, e in quelli vicini, battevano le pentole, e la sera dopo ha sistemato un altoparlante perché potessimo ascoltare El derecho de vivir en paz, di Víctor Jara, una canzone scritta contro la guerra in Vietnam ma diventata l’inno di questi giorni, perché domenica il presidente, inetto, irresponsabile, ha annunciato “una guerra contro un nemico potente”, una guerra inesistente, una guerra soltanto sua. Quindi eravamo davvero negli anni Settanta. E abbiamo rispolverato anche Quilapayún, Violeta Parra, El baile de los que sobran dei Los Prisioneros.

E mi sono chiesta se forse abbia dovuto tranquillizzare i suoi genitori, che non si meritano oggi di rivivere i fantasmi del passato. Se forse abbia dovuto spiegare ai suoi figli molto prima di quanto pensasse, il significato di stato di emergenza, coprifuoco, violazione dei diritti umani; se deve calmare i bambini quando chiedono se siamo sotto dittatura, se ci sarà una guerra civile, dir loro che andrà tutto bene.

E mi sono detta: magari oggi ci siamo incrociati nella fila per comprare il cibo. In coda dal benzinaio. Nella manifestazione pacifica, in strada. Avrà potuto andare al lavoro? Vorrà tornare alla normalità, cenare tranquillo, guardare una serie tv? O forse sente e sa che non potremo tornare mai più alla normalità, che quella normalità era un’allucinazione? Avrà accettato, all’improvviso l’evidenza che questo mondo è fragile, che viviamo in un equilibrio delicato e insostenibile? E percepirà quella fragilità anche nello stato d’animo? Rabbia. Allegria. Tristezza. Allegria. Angoscia. Una bipolarità che si acuisce mano a mano che passano i giorni.

Sarà convinto che ciò che accade là fuori, a Hong Kong, a Beirut, in Siria, a Caracas, ci colpisca, e ci riguardi, perché siamo inevitabilmente connessi? Ricorderà, questa sera, gli studenti che già nel 2006 ci avevano detto che il bene comune era qualcosa che non potevamo ignorare, qualcosa da cui non potevamo prescindere, e che nel 2011 l’avevano ripetuto, e l’anno scorso anche le giovani femministe, ma nessuno, a quanto pare, li aveva ascoltati? Si sentirà orgoglioso di quelli che sono in strada, proverà ammirazione, allegria, paura per loro, anche se loro sembrano non averne? Avrà, questa sera, un nodo in gola, stretto, piangerà infine, nel guardare i video dei militari che sparano contro persone disarmate, bambini che gridano perché portano via le loro mamme, e una lista nera di morti, arrestati, denunce di torture?

Forse questa fragilità che all’improvviso ci invade è quella che ci ha reso più forti?
La forza della vulnerabilità è stata capace di farci svegliare?

Una settimana in questa città assediata, bipolare come noi. Il giorno le marce (quotidiane, ogni volta più numerose) le assemblee, le riunioni, la musica, i meme ingegnosi, gli striscioni provocatori, molto più lucidi dei titoli dei giornali. E la sera, le strade diventano corridoi vuoti e tutti ci affacciamo (come i detenuti quando fanno risuonare le tazze di alluminio contro le sbarre) per provare che siamo qui, per chiedere che i militari tornino nelle loro caserme, che finisca lo stato d’emergenza, che le cose cambino davvero. Nella quiete della notte, interrotta dai proiettili, o dagli elicotteri che sorvolano la città, noi non ci vediamo, ma sappiamo che siamo vicini, d’accordo. E che siamo molti, milioni.

Sono giorni strani. Il mio vicino, quel compagno notturno. Non ho mai parlato con lui. Quando tutto questo sarà finito, sicuramente non lo vedrò più. All’improvviso voglio percorrere quei due isolati che ci separano, suonare il citofono, ringraziarlo. Lo vedo da lontano. Sei solo. Ma sei con me, ci facciamo compagnia.