Un’amicizia lunga cinquant’anni, una conversazione di un anno: questo è il cuore di Sulle corde del tempo di Jorge Coulón Larrañaga e Federico Bonadonna. Libro-dialogo, manifesto, memoir, testimonianza personalissima e plurale, Sulle corde del tempo racconta la storia degli Inti Illimani, l’iconico gruppo musicale cileno, dal punto di vista di uno dei suoi fondatori, e facendolo raccoglie, insieme alle tracce della Storia, la memoria di un uomo di 75 anni nell’intimità della conversazione con un vecchio amico. 
 
Gli Inti Illimani, senza costringersi in una cornice nostalgica e senza vincolarsi a fantasmagorie possibili, hanno attraversato il tempo e lo spazio, mutando e contaminandosi continuamente. Hanno non solo, infatti, recuperato tradizioni e genealogie sonore e performative ricchissime, che rischiavano di essere cancellate per sempre, ma le hanno anche rielaborate per reimmaginare il mondo al di là di un orizzonte soffocante. Ma oggi, momento in cui molti lamentano la definitiva caduta delle grandi illusioni politiche, che ruolo può avere la speranza incarnata dagli Inti Illimani? Come può ancora essere vivo e generativo il loro discorso artistico?
 
Ecco, il punto, forse, sta proprio nella disintegrazione delle ideologie. Al loro posto, abbiamo la pluralità, il rimescolamento, il compostaggio delle idee, dei corpi, dei soggetti. Le manifestazioni ecologiste, anti-razziste, transfemministe, non si reggono più su un’unica grande visione ma hanno trovato vitalità e ricchezza proprio nella caduta, finalmente, delle teorie che pretendevano di spiegare la realtà intera a partire da un unicum – di volta in volta la classe, la razza, il genere.
 
Ciò che ora sappiamo è che, semplicemente, non possiamo non lottare soltanto perché l’esito sarà inevitabilmente imperfetto, approssimativo e provvisorio. Può crederlo solo chi può permettersi di farlo. E per questo, oggi, il lavoro degli Inti Illimani riesce a sprigionare un senso tanto pieno: nelle mutazioni e nelle contaminazioni sta il nostro futuro comune.

Di questo abbiamo parlato con Jorge Coulón Larrañaga e Federico Bonadonna, co-autori di Sulle corde del tempo.

 

Il musicista Jorge Coulón, tra i fondatori degli INTI ILLIMANI e co-autore del libro “Sulle corde del tempo” (© Leonardo Toro)

Nel corso degli ultimi decenni il fare musica popolare, il recupero e la rielaborazione di tradizioni sonore, ha assunto sempre più una valenza politica. Ma cosa significava per voi inserirvi in una tradizione musicale, agli inizi del vostro percorso, ed eventualmente com’è cambiato il vostro approccio?
 
La spinta iniziale è venuta dalla volontà di riscattare l’identità dei nostri popoli originari, ma anche e soprattutto dalla passione per questi suoni, che ci hanno fortemente colpito. Abbiamo capito che avevamo di fronte un tesoro culturale inesplorato e sconosciuto. E, ancor più grave, a rischio di estinzione. Ma c’è sempre un rischio nel riscatto delle identità: quello dello sciovinismo, dell’intolleranza del diverso, dell’altro. Penso che la globalizzazione porti necessariamente a un bisogno di identità, di sapere chi si è, chi è la gente con cui si convive. Ma valorizzare le differenze non deve comportare il rifiuto o l’isolamento dell’altro: deve venire dalla consapevolezza che nella diversità c’è ricchezza. E che anche la propria identità arricchisce la cultura altrui. In questo senso, il nostro approccio non è cambiato, ma si è aperto a esperienze e a ricchezze portate dalla convivenza con altre identità. L’identità non deve diventare un fatto reazionario ma, piuttosto, un fattore che favorisca il dialogo con altre culture da una posizione di dignità.
 
Avete sempre nutrito il vostro rapporto con le radici, e allo stesso tempo avete viaggiato moltissimo, costretti dagli eventi. Ha cambiato significato nel tempo e nello spazio il vostro rapporto con le origini?
 
Senza dubbio quando metti la tua identità a confronto con le altre ti arricchisci e avviene una contaminazione culturale assolutamente positiva. Naturalmente, nel tempo alcune cose si sono rafforzate, come il bisogno di riscatto della nostra identità, mentre altre sono cambiate. Si possono continuamente incorporare cose nuove che arricchiscono il proprio discorso musicale, artistico, e non solo.
 
Come descriveresti oggi il tuo rapporto con l’Italia? In particolare con la sua musica, ma anche con la sua politica.
 
Nessuno al mondo potrebbe essere indifferente alla musica italiana. La musica popolare ha una straordinaria capacità di assorbire musiche diverse da tutto il mondo. E molta musica italiana è anche rielaborazione di altre esperienze. Insomma, il nostro rapporto con il mondo musicale italiano è sempre stato e continua a essere interessante. Stiamo lavorando, infatti, con Giulio Wilson, cantautore fiorentino raffinato e colto, per realizzare un disco a metà tra la nostra identità e la sua.
Il rapporto con la politica è molto più complesso. Provo un’enorme tristezza nel vedere come l’Italia che ho conosciuto, piena di fermenti, di stimoli per il futuro, per una convivenza diversa, per un’Europa diversa, si sia appiattita su ciò che oggi è la politica italiana.
 
Com’è stato raccontarsi in un libro, tornare a percorrere attraverso il dialogo con un amico il tuo percorso di vita? Ti ha spinto a farlo una ragione in particolare?
 
L’esercizio della memoria è sempre una rivisitazione complicata, lo sanno bene gli psicoanalisti. Naturalmente il dialogo con Federico, con cui ho un rapporto da lungo tempo, ha significato anche riordinare i ricordi. I ricordi, infatti, sono abbastanza caotici e si tende a ricostruirli con un ordine o in una sequenza che non sempre corrispondono alla verità. Borges diceva che la fantasia non è altro che cattiva memoria. E può accadere anche di scrivere un romanzo sulla propria vita, che non corrisponde del tutto a quella che è stata o a come l’hanno vissuta gli altri. L’ho fatto perché credo sia stato un esercizio salutare e anche perché da un po’ di tempo io e Federico confrontavamo i nostri ricordi e ci rendevamo conto che non sempre combaciavano. Anzi, lui ha fatto un fantastico lavoro nell’indagare come un giornalista le fonti, quanto c’era di vero e quanto di finzione nei miei ricordi.
 
Abbiamo seguito da vicino le evoluzioni della scena politica e sociale in Cile negli ultimi anni, che dalle proteste ha portato all’elezione di Boric ma anche al fallimento del referendum costituzionale. Come interpreti l’attuale situazione cilena?
 
La situazione cilena è un’incognita, il che in questo momento vale un po’ in tutto il mondo. La vita di una persona non è sufficiente per mettere in prospettiva la propria epoca, per capire quali sono i cambiamenti epocali che si stanno vivendo. Se ci si lascia guidare dalla contingenza, basta vincere un’elezione per pensare che tutto sia cambiato, ma non è così, in un momento cambia tutto di nuovo. Non è possibile misurare la storia, o capire nel breve periodo in che direzione essa vada. Un grande musicologo italiano, che era anche un grande intellettuale, Luigi Pestalozza, ci diceva sempre che il futuro non è scritto, che una tendenza di oggi non ti può assicurare che le cose cambieranno in un certo senso. Che il futuro lo costruiamo continuamente e dipende anche da noi, oggi, come sarà il domani. 
Siamo in un momento critico della civiltà umana, con un pianeta sempre più piccolo, risorse limitate e con i sistemi politici e sociali implementati finora che non lasciano presagire un buon futuro. Bisogna trovare strade diverse, penso che stia definitivamente fallendo l’idea individualista del progresso e del successo personali. Bisognerà trovare modi e forme di comunità, di solidarietà, di un progresso che sia però sociale. Quando la ricchezza è per pochi e resta il disastro per tutti gli altri, il sistema non è sostenibile.

Lo scrittore Federico Bonadonna, co-autore del libro “Sulle corde del tempo”

Quella che hai condiviso e continui a condividere con Jorge è una lunga amicizia. Cosa vuol dire tornare sui passi di tutti questi anni, raccontare una storia in cui si può riversare un proprio bagaglio affettivo e personale?
 
Fa un effetto davvero particolare. Questo libro si intitola Sulle corde del tempo, ma potrebbe anche chiamarsi Sulle corde della memoria, perché rappresenta un tentativo di fermare sulla carta con le parole tutta una serie di emozioni, ricordi, impressioni che, nell’arco di 50 anni, necessariamente si confondono tra di loro, e allo stesso tempo è una ricerca di senso. I comunisti tentano sempre di dare un senso a posteriori agli avvenimenti, ma non sempre questo è possibile. Un libro, invece, ti obbliga a dare un inizio e una fine a una storia che, per quanto mi riguarda, di per sé è circolare. Chi nutre una speranza nel socialismo crede che l’umanità vada in una direzione precisa. Chi come me, invece, pensa che il mondo non abbia un senso determinato lavora sulla circolarità del tempo e della storia.
 
Italia e Cile sono paesi legati da un rapporto stretto e durevole. Come hanno comunicato i due immaginari culturali e politici, anche alla luce degli ultimi rivolgimenti socio-politici nei due paesi?
 
Vedo l’unione tra Cile e Italia andare avanti da 50 anni, da Allende in poi. Il Cile inoltre è fondamentale sul piano internazionale, non solo per l’Italia, perché è stato il laboratorio del neoliberismo. In Cile, con Boric è andata al governo una generazione di giovani, anzi, di giovanissimi, fatto assolutamente positivo per quel paese e una speranza per tutti. L’Italia oggi ha a sua volta un presidente del consiglio giovane, ma un governo abbastanza vecchio. Personalmente, non sono preoccupato per questo governo, non credo che nel nostro paese sia in corso un’involuzione fascistoide. Penso piuttosto che ci sia una brutta forma di conservatorismo, questo sì, e un governo vecchio, di personaggi che conosciamo benissimo, che naturalmente non faranno bene a questo paese ma che non ci porteranno su un terreno eversivo.
 
Cosa significa parlare degli Inti Illimani oggi? Cosa hanno da raccontare e quale può essere il loro impatto per le nuove generazioni?
 
Gli Inti Illimani raccontano di un mondo che avrebbe potuto essere e che purtroppo non è stato. Raccontano di una via diversa al socialismo, una torsione che il mondo avrebbe potuto prendere e, secondo me, ogni volta che si presenta un’alternativa reale e radicale è sempre un bene. In questo momento il problema è proprio che non vediamo alternative, e quindi sì, le nuove generazioni potrebbero assolutamente apprezzare sia la musica che la politica degli Inti Illimani. E in effetti la apprezzano: al concerto tenutosi a Roma lo scorso marzo c’erano tanti giovanissimi.
 
Il rapporto tra musica e politica è strettissimo nella produzione del complesso. Quanto c’è di simbolico nel lavoro degli Inti Illimani?
 
Gli Inti Illimani sono tra i primi gruppi cileni a indossare un poncho. Il poncho era l’indumento del povero, del contadino, del campesino, dello sfruttato, aveva quindi un alto valore simbolico. Poi lo tingono di rosso, rosso come il sangue ma anche come il sol dell’avvenire. Quando si esibivano, soprattutto i primi anni, dietro di loro si vedevano i muralisti della Brigada Ramona Parra o della Brigada Pablo Neruda che dipingevano straordinari murales. Gli Inti Illimani suonavano e suonano ancora una quantità impressionante di strumenti provenienti da tutta l’America latina: il tiple colombiano, il cuatro venezuelano, il charango boliviano, il bombo argentino, le maracas brasiliane, un’infinità di strumenti convergenti nel movimento musicale della nueva canción chilena. I simboli sono fondamentali per questo tipo di gruppo: penso che gli Inti Illimani siano un fatto artistico totale, proprio perché insieme alla musica veicolano contenuti politici ed estetici di altissimo livello.