A una settimana dal 25 aprile, è di liberazione che vogliamo continuare a parlare.
Come sappiamo, infatti, ogni 25 aprile celebriamo la Festa della liberazione. Sappiamo altrettanto bene, però, come puntualmente, con l’occasione, si sollevino voci che nel migliore dei casi vogliono prendere le distanze dalla ricorrenza, mentre prosegue, inquietante e irrefrenabile, una progressiva ri-normalizzazione di ideologie e proposte politiche dalla genealogia evidentemente fascista.
In Italia il ventennio fascista ha impresso profondamente la propria forma sulla vita politica e sociale e continua a condizionarla intimamente. Un’eredità, in tanti lo hanno già detto con forza, con cui non abbiamo veramente fatto i conti. Che non abbiamo ancora digerito.
Parlare quindi di esperienze di dittatura, imperialismo e soppressione del dissenso è utile per non sentirsi così soli, ma anche per raccogliere più informazioni possibili e imparare a riconoscere e combattere le nuove, striscianti manifestazioni di vecchi processi. Come anche a dare il giusto valore e spazio ai movimenti che a questi processi resistono, come chi in questi mesi continua a opporsi al genocidio in corso in Palestina. Spesso giovani o giovanissimi attivisti.
Il Cile rappresenta a sua volta un esempio di come questa eredità indigesta torni a riproporsi nel tempo e di come l’impegno per liberarsene diventi responsabilità di una generazione dopo l’altra.
Ne abbiamo parlato con Lola Larra, autrice cilena di cui Edicola ha tradotto il graphic novel A sud dell’Alameda – che racconta la cosiddetta “rivoluzione dei pinguini”, di cui furono protagonisti studenti delle superiori – e il romanzo illustrato Sprinters – che narra la vicenda di Colonia Dignidad, setta fondata in Cile da un caporale nazista e luogo di atroci abusi -, in tour in Italia dal 7 all’11 maggio.

 

La tua storia familiare, che ti lega all’esperienza collettiva dell’esilio durante la dittatura, ha giocato un ruolo nello sviluppo della tua sensibilità politica e nel tuo impegno letterario? Credi che il movimento di ritorno al Cile ti abbia offerto una prospettiva particolare sul paese?

È indubbio che la dura esperienza dell’esilio abbia segnato non solo la mia vita e le mie convinzioni politiche, ma anche la mia scrittura. Devo dire, però, che inizialmente non ho sofferto l’esilio quanto i miei genitori, che sono stati costretti a lasciare il Cile con la forza, lasciandosi alle spalle un paese distrutto e un progetto, come quello del governo di Unidad Popular, completamente schiacciato e fatto a pezzi dai militari. Quando siamo partiti ero molto piccola e ho amato il nuovo paese, il Venezuela, fin dal primo momento. La luce, la temperatura, l’umidità, il modo in cui la gente parlava, la natura caotica di Caracas mi riempivano di meraviglia. Il Venezuela mi ha donato molte cose belle, mi è piaciuto molto viverci, e alla fine è il Paese che considero più mio. Adesso, però, guardandomi indietro, capisco che l’esilio ha inciso su molte cose della mia vita, come crescere nella paura, o essere una bambina iper-adattata, o essere rimasta muta per molti mesi finché non sono riuscita a parlare con l’accento venezuelano. Ma, naturalmente, queste sono difficoltà molto meno dolorose di quelle dei miei genitori e delle migliaia di cileni che hanno dovuto andarsene a causa di Pinochet.

Ho vissuto in Venezuela fino a ventiquattro anni e lì, di mia iniziativa, sono andata a studiare in Spagna, prima che anche il Venezuela soccombesse alla dittatura. E la Spagna è diventata a sua volta il mio paese, un paese che mi ha accolto, dove ho ottimi amici, dove ho mosso i primi passi come scrittrice e dove ho pubblicato i miei primi libri. Tra il 2006 e il 2008 ho iniziato a venire in Cile per fare ricerche su Colonia Dignidad, un’indagine che sarebbe poi diventata il libro Sprinters. Ho poi deciso di rimanere in Cile, un po’ per caso, ma in fondo anche perché volevo conoscere, riconoscere, il Paese in cui sono nata, un Paese che fino ad allora mi era stato abbastanza estraneo. 

La sorpresa è stata che solo in Cile, credo, ho potuto scrivere i libri che mi interessano davvero, come A sud dell’AlamedaSprinters e, più recentemente, La eterna juventud. È buffo, perché sono andata in Spagna, il paese che è il centro dell’editoria in castigliano, con il desiderio di diventare una scrittrice. Ma dal “centro” sono dovuta tornare alla “periferia” per scrivere i romanzi in cui mi sento meglio rappresentata, in cui racconto le storie che mi stanno a cuore davvero. È stato un lungo ritorno, ma credo che in letteratura siano le grandi deviazioni, le strade secondarie, che ti permettono di raggiungere i luoghi più interessanti e anche più veri. 

L’esilio tende molte trappole alla memoria, alla costruzione e alla ricostruzione della memoria, individuale e collettiva. Sia in A sud dell’Alameda che in Sprinters cerco, credo, di ricostruire questa memoria perduta, questa memoria che non ho mai veramente avuto, della vita che non ho mai vissuto in Cile. Si tratta di avvicinarsi a un passato che non è mai stato, che non è mai esistito ma che avrebbe potuto essere. In questa ricostruzione fittizia, mi chiedo cosa avrei fatto se non fossi andata in esilio, come mi sarei posta di fronte alle manifestazioni studentesche contro Pinochet negli anni Ottanta, per esempio. O se mi sarei resa conto o meno dell’esistenza di Colonia Dignidad. Infine, sarei stata complice, sarei rimasta indifferente, avrei fatto qualcosa o mi sarei voltata dall’altra parte? Queste domande scomode, che sono quelle che mi interessano in letteratura, sono diverse da quelle che si pone uno scrittore o una scrittrice che ha vissuto in Cile durante la dittatura. Quindi, sicuramente il fatto di venire dall’estero e di aver vissuto in esilio fa sì che io racconti questi eventi della storia recente del Cile da una prospettiva diversa.

In Sprinters racconti di una comunità settaria di discendenza nazista e, allo stesso tempo, ben allacciata al potere istituzionale e militare del paese. Quali credi che siano stati i fattori – storici, politici, sociali – che hanno contribuito al verificarsi di questi eventi? 

Il fattore principale, ovviamente, è la dittatura in Cile. Voglio credere che in un contesto democratico Colonia Dignidad e le sue atrocità non avrebbero avuto un campo così propizio per rimanere impuniti tanto a lungo. I legami di Paul Schafer, il leader della setta, con Pinochet e i suoi ministri, e anche con molti uomini d’affari cileni, sono ampiamente noti. Tuttavia, non bisogna dimenticare che Colonia Dignidad è stata fondata prima della dittatura e ha avuto un seguito anche dopo la stessa. E che ancora oggi le vittime non sono state risarcite e molti dei colpevoli rimangono liberi. Com’è possibile? Come possiamo tollerare e rimanere indifferenti a tutto ciò che accadeva in quel luogo? Come potevamo non sapere cosa stava accadendo? Davvero non sapevamo? Le domande sono tante e le risposte richiederebbero uno studio socio-psicologico approfondito del Cile degli ultimi decenni. Per ora, plaudo al lavoro infinitamente paziente, impegnativo e disinteressato delle persone che da diversi fronti, e con poco o nessun sostegno da parte dei governi cileno e tedesco, continuano a cercare di svelare i segreti di Colonia Dignidad e di ottenere giustizia e risarcimenti per le vittime. Avvocati come Hernán Fernández e Winfried Hempel, ricercatori come Jan Stehle, giornalisti come Carola Fuentes e molti altri eroi anonimi.

Vorresti raccontarci il lavoro giornalistico, di documentazione, che hai realizzato con A sud dell’Alameda, che nella finzione testimonia un movimento studentesco reale? Come hai raccolto le informazioni e come hai costruito il punto di vista?

Quando sono venuta in Cile nel 2006 per raccogliere informazioni su Colonia Dignidad, mi sono imbattuta nelle proteste degli studenti delle scuole superiori, quella che in seguito sarebbe stata chiamata la “rivoluzione dei pinguini”. Sono andata alle manifestazioni per solidarietà e poi alle occupazioni per interesse giornalistico. Volevo realizzare un reportage, mi aveva colpito quello che stavano facendo gli adolescenti cileni. Non avevo mai visto nulla di simile da vicino: ragazzi e ragazze di 14 e 15 anni che scuotevano un intero paese, facendogli capire che soffriva ancora delle ingiustizie e delle disuguaglianze ereditate dalla dittatura, come la legge sull’istruzione contro cui protestavano. Anche se non ho mai scritto il reportage, in quei mesi ho preso molti appunti e intervistato gli studenti. Tre anni più tardi ho recuperato quegli appunti per iniziare a scrivere il romanzo e poi è iniziato il processo che solitamente seguo per i miei romanzi: raccogliere notizie, leggere libri, intervistare persone che potessero ricordare e darmi spunti, guardare documentari, andare nelle scuole dove ci sono state le occupazioni, camminare per le strade dove hanno avuto luogo i cortei. Curiosamente, nonostante fossero passati solo tre anni, era già stato pubblicato materiale in abbondanza, diversi libri di carattere giornalistico e un paio di documentari molto interessanti. 

Per quanto riguarda il punto di vista, il primo a comparire è quello del protagonista, la voce in prima persona di Nicolás, un giovane che si ritrova in mezzo all’occupazione della sua scuola, non proprio per convinzioni politiche. Per altri libri mi ci è voluto più tempo per trovare la voce narrante, ma in A sud dell’Alameda fin dall’inizio è stato Nicolás a raccontare la storia. La vera trovata, credo, è stato il secondo punto di vista, il misterioso personaggio che sorveglia la scuola dalla casa vicina. È un punto di vista, un narratore, a sua volta in prima persona, il cui linguaggio è però fatto di immagini. Avevo scritto una bozza che ho poi sviluppato insieme a Vicente [N.d.T.: Vicente Reinamontes, il disegnatore] mentre lavorava allo storyboard e alle illustrazioni finali.

In un caso il fumetto, nell’altro le illustrazioni: vorresti dirci cosa ti spinge a ricorrere all’elemento grafico nelle tue narrazioni e come lo usi? Come contribuisce a mettere in forma le storie che vuoi raccontare?

Sono cresciuta tra i libri illustrati: mia madre ha fondato in Venezuela, alla fine degli anni Settanta, una casa editrice di riferimento per i bambini e i ragazzi, Ediciones Ekaré. Fin da bambina ho avuto un accesso privilegiato ad albi, fumetti e romanzi per i più giovani. Molti anni più tardi, quando sono tornata in Cile, dopo aver lavorato a lungo come giornalista, io, mia madre e mio fratello abbiamo fondato Ediciones Ekaré Sur, con cui pubblichiamo libri illustrati in collaborazione con autori e illustratori cileni. Questo, quindi, è un mondo molto familiare per me e mi sembra che sia da lì che provengono le cose più interessanti che si fanno oggi nell’editoria. Mi è sembrato perciò molto stimolante portare le caratteristiche che contraddistinguono l’albo (il rapporto speciale tra testo e immagine, il modo in cui le immagini raccontano aspetti non presenti nel testo, il fatto che tutti gli elementi grafici aiutino la narrazione e non siano solo ornamentali, ecc.) nei romanzi per adulti.

Per me è naturale pensare a libri con immagini, quelli che oggi si chiamano libri ibridi. Mi piace pensare al progetto, alla possibilità di lavorare non solo con il testo, ma anche con le immagini, i formati, le copertine, gli stili. Non è che io sappia fare tutto questo, so solo scrivere, ma mi piace collaborare con altri artisti, illustratori, disegnatori.

Settarismo di derivazione nazista, autoritarismo istituzionale e militare, dittatura, espansione capitalista: nelle tue opere racconti diverse forme di prevaricazione. Quali sono gli elementi del conflitto sociale che trovi importante narrare? Vorresti dirci come hai voluto declinare questi temi nei tuoi libri?

Il mio approccio a ciò che è accaduto a Colonia Dignidad (nel caso di Sprinters), o alle mobilitazioni studentesche (nel caso di A sud dell’Alameda), cerca di dare uno sguardo intimo, e direi quotidiano, al conflitto. Leggiamo e guardiamo le notizie su ciò che sta accadendo e che è accaduto nel mondo con troppo distacco, sembra che siamo oramai abituati alle tragedie, alle guerre, ai genocidi, alle torture, a tutto il male che abita il mondo. Ecco perché per me è importante, quando affronto i temi che citi, farlo da una prospettiva apparentemente minima, piccola, attraverso personaggi che dubitano, che si pongono domande, che non hanno le risposte, che non sono convinti, che non pretendono di detenere la verità. Perché credo che sia da questa dimensione intima che si dispiegano le grandi questioni del nostro tempo, forse in un modo più vero, che può toccare e stimolare di più il lettore.

Nel corso della storia, la maggior parte dei movimenti studenteschi è nata come risposta immediata a un’ingiustizia specifica che ha scatenato l’indignazione. Ciò che accende la fiamma della protesta di solito non sono grandi idee o concetti astratti, ma la legittima difesa contro una determinata misura che ci viola. Da lì, a volte, emerge una riflessione più profonda e magari anche richieste intorno a problemi strutturali più complessi, globali, sistemici. Il maggio ’68 è iniziato perché gli studenti di Paris Nanterre chiedevano flessibilità nelle regole della loro università; solo quando il movimento è cresciuto, la protesta si è trasformata in richieste sociali, culturali e politiche di più ampia portata: contro il capitalismo, contro la repressione sessuale, contro la società dei consumi, contro il colonialismo. Nei primi giorni delle proteste che in Cina hanno portato al massacro di Piazza Tienanmen, nel 1989, gli studenti chiedevano solo di migliorare le condizioni di mense e dormitori. Soltanto in seguito sono passati a chiedere riforme politiche sostanziali, come l’apertura del regime, la libertà di espressione e la democrazia. 

I pinguini del 2006 in Cile inizialmente chiedevano buoni per i trasporti, sostegni per le spese alimentari ed esami di ammissione all’università gratuiti. Dopo settimane di mobilitazioni, hanno chiesto un’istruzione gratuita e di qualità per tutti e l’abrogazione della legge ereditata dalla dittatura. Le proteste delle studenti femministe del 2018 sono iniziate con la richiesta di implementare protocolli contro gli abusi e le molestie. Poi hanno chiesto un’istruzione non sessista e la parità. Gli studenti che hanno dato il via ai moti dell’ottobre 2019 in Cile protestavano contro l’aumento delle tariffe della metropolitana. E pochi giorni dopo sono apparse le vere richieste: dignità, istruzione, salute, pensioni, una nuova Costituzione che sostituisca quella di Pinochet. Dal piccolo al globale. Dal contingente allo strutturale.

E quando scrivo, mi succede qualcosa di simile. Quando ho iniziato A sud dell’Alameda, pensavo di scrivere di un’occupazione, perché mi sembrava uno scenario letterariamente affascinante. Avevo in mente L’angelo sterminatore di Buñuel. E Il signore delle mosche di Wiliam Golding. Pensavo alla letteratura, al cinema. Più tardi, lavorando con Vicente Reinamontes, ho capito che stavamo facendo questo libro per rendere omaggio e testimoniare la rivoluzione dei pinguini e tutto ciò che ha significato per il Cile. Quando ho iniziato a scrivere Sprinters, volevo raccontare la storia di una persona cresciuta in completo isolamento, senza poter seguire le notizie, senza leggere i giornali, senza carta d’identità, senza genitori… solo successivamente ho afferrato il cuore di ciò che mi interessava raccontare del caso di questa setta pseudo-nazista, tra cui il modo in cui il Cile è rimasto addormentato e dimentico degli orrori che stavano accadendo in un intero paese.
Ogni autore ha i propri interessi, ma è impossibile che la letteratura non sia permeata dai conflitti, dai debiti, dalle angosce e dagli aneliti del suo tempo. E sebbene gli scrittori non abbiano doveri diretti nella costruzione di una società migliore e più giusta, credo che al di là di noi autori, e nonostante noi autori, la letteratura non sia immune da ciò che accade intorno a lei. Perché, nonostante i nostri slanci personali, la letteratura va avanti da sola e, nelle mani dei lettori, è in grado di andare ben oltre noi.