Per Nona Fernández non si può non provare ammirazione, perché dopo aver letto i suoi libri – tra cui Space Invaders, che tenete tra le mani, ma anche Chilean Electric, Mapocho e tutti gli altri – stiamo pure sicuri di una cosa: avremo gli incubi. Come in seguito a certi incubi, gli incubi migliori, gli incubi a largo spettro, ci risvegliamo e non ricordiamo nulla, ma qualche ora dopo o qualche giorno dopo o addirittura dopo alcune settimane, o anni, abbiamo la strana sensazione di ricordare qualcosa di cui non abbiamo mai avuto esperienza. Qualcosa che non ci è mai successo. Qualcosa che è accaduto a qualcun altro, uno sconosciuto o una sconosciuta. Può verificarsi anche che questo disturbo, nelle sue forme più radicali, ci induca a credere di aver fatto esperienza di un incubo collettivo. Non possiamo stabilire con certezza a quale entità appartenga ciò che abbiamo sognato. Tutto è nascosto, tutto è confuso. Proviamo, con gli strumenti razionali della veglia, a seguire a ritroso le orme del sogno, tuttavia scopriamo ben presto che non è possibile tornare al punto in cui il sogno è iniziato né al tempo psichico in cui il sogno non era mai stato sognato. Così non riusciamo più a ricordare come fossero le nostre vite prima che il sogno le modificasse in modo irrimediabile. 

Nel suo primo libro, nel 1963, un intrattabile autore austriaco scriveva: «[…] esperienze che si fanno a otto nove anni trasformano all’improvviso il trentenne. Come il colorante si scioglie dentro ad acque profonde che non sono mai state limpide». I romanzi di Nona Fernández sembrano raccontare con l’esattezza ingannevole del ricordo e del sogno ciò che accade in quelle acque, o meglio ciò che gli occhi di un trentenne o di un quarantenne vedono nel momento in cui tornano a nuotarvi dopo anni di assenza, di esilio. Ogni infanzia è un continente da cui, a un certo punto, si viene esiliati e a cui, per qualche ragione, in un momento della vita si è costretti a fare ritorno per tentare di ricomporre le scene perdute di un film dell’orrore. Persino le infanzie più felici sono popolate di mostri. Persino le infanzie più lugubri sono state, in qualche modo, felici. Per questo, pur affondando le radici nell’irreale scenario della dittatura militare cilena, i bambini e gli adolescenti di cui Fernández racconta – di cui Fernández fa parte – somigliano a figurine che oltrepassano il sogno e che di notte, violando il coprifuoco della memoria, tornano a infestare, con i loro passi nudi, i loro codici fantastici, le loro risate spettrali che si perdono nel buio, i territori in cui un tempo, seppur per poco, era stato loro possibile essere ignari. O fingersi ignari. O pregare con tutte le forze di restare ignari per sempre. Ma questo gioco dell’inconsapevolezza, con buona probabilità, è già un’illusione adulta, un disperato tentativo a posteriori di cancellare il sogno, di rimuovere l’angoscia e convincersi di essere cresciuti nel cuore di un’allucinazione, una strategia di sopravvivenza. 

Gli anni passano, tutto sembra sepolto per sempre e invece in mezzo alla notte il telefono squilla e ci ritroviamo ad ascoltare una chiamata anonima. La voce dall’altra parte appartiene a qualcuno che ha l’aria di sapere molte cose. Ascoltiamo con attenzione quella voce calma e monotona che chiama dall’inferno. Quasi sempre appartiene a un maschio bianco, molto vecchio o di mezza età, un uomo istruito. A volte invece è la voce di una donna. La sentiamo singhiozzare. È un pianto breve, secco. La donna è un’attrice. Sta recitando, vuole ingannarci. In entrambi i casi la voce conclude il suo spaventoso monologo nello stesso modo: avevi dieci anni, non hai visto niente. La telefonata si interrompe e ci lascia in preda al terrore, perché da anni vivevamo nell’attesa che il telefono squillasse in piena notte e ormai credevamo che fosse troppo tardi, che il tempo avesse svolto il suo lavoro, che i morti avessero trovato pace e con loro i sogni che da quando avevamo dieci anni ci perseguitano, perché è vero che all’epoca non sapevamo niente del mondo, ma è altrettanto innegabile – o almeno così crediamo – che a un certo punto abbiamo visto apparire le bare, gli adulti impallidire, alcuni nostri amici smettere di parlare, i giochi di sempre farsi più tetri. 

Chiunque sia il proprietario di quella voce che un giorno arriva a toglierci il sonno per sempre, sappiamo che lo incontreremo. Forse riconosceremo la sua faccia alla televisione, su un sito internet, su un quotidiano, tra i passeggeri anonimi di un autobus che sfreccia verso la periferia del delirio. Sarà un volto invecchiato e noi vedremo i suoi occhi che urlano come fantasmi tra le rovine di una casa bruciata. Una casa che è una città, una città piena di spettri, una casa che è un campo di terra nera da cui una mattina iniziano ad affiorare ossa, una casa che è un fiume su cui, se siamo abbastanza ubriachi, vediamo sfilare una regata di cadaveri fosforescenti. Quando il volto dello sconosciuto o della sconosciuta ci si pareranno davanti avremo due certezze: innanzitutto saremo sicuri di averlo già visto da qualche parte e di averlo dimenticato in modo innaturale; poi, senza ascoltare o leggere le parole che ne accompagneranno la comparsa, ricorderemo, nel corso degli anni, di averlo sognato. Facce così non possono che popolare gli abissi più osceni degli incubi. Facce così non possono che passare inosservate. Le facce grigie degli adulti di un tempo. Le ombre che si muovevano intorno a noi e ai nostri amici quando avevamo dieci anni e tutti credevano che i nostri occhi non vedessero, che le nostre orecchie non sentissero, che i nostri sogni non sarebbero arrivati, prima o poi, a sussurrarci: avevi dieci anni, hai visto tutto. E a farci urlare nel buio.

 Ogni incubo che si rispetti finisce con un grido. I romanzi di Nona Fernández, invece, sembrano abitare quella soglia che sta tra la rivelazione che gela il sangue e il risveglio, un territorio dai confini tremolanti in cui ogni esperienza, ogni ricordo sembrano sul punto di rivelarsi per quello che sono: fantasmi senza casa, materiale manipolato e falsificato, elementi di un’indagine condotta alle spalle di qualsiasi polizia ufficiale, oggetti senza valore pescati da una tasca, oggetti preziosi, tesori quotidiani, amuleti. Davanti ai nostri occhi si compone una mappa senza fine. La X sulla mappa è il risveglio, ma sin dalle prime pagine possiamo intuire che non la raggiungeremo mai, che vagheremo, piccoli depositari di un’eredità onirica di cui nessuno vuole farsi carico, e spariremo dentro il banco di nebbia che ci aspetta una volta oltrepassata l’ultima parola. È così che si potrebbe definire l’intera opera di Fernández: il racconto di un Paese che brancola nel suo stesso oblio. Il racconto di un’infanzia collettiva segnata dalla morte, dalla scomparsa, dalla delazione, da un’inquietudine prematura che trasforma normali bambini in testimoni – i testimoni del futuro, coloro che nel futuro, negli incubi del futuro infileranno gli occhi senza paura e guarderanno indietro, perché guardare indietro e guardare avanti, a conti fatti, sono lo stesso smarrimento, lo stesso incanto, lo stesso terrore. 

Non si può non restare incantati dai giovani personaggi di Space Invaders, dal loro pallore e dal loro coraggio, dai loro sguardi puntati nella lunga notte della memoria e della storia, dalle loro domande senza risposta. Tenete gli occhi bene aperti, sembrano dirci, perché quando li chiuderete per sognare, ciò che avrete visto vi servirà per non impazzire, per provare a trovare la via d’uscita dell’incubo, per chiamare a raccolta tutti coloro che credete di avere perduto e che all’improvviso, proprio un istante prima di entrare nell’antro del mostro, sentirete accanto a voi. Quelle presenze sono cicatrici luminose. Non si possono leggere i libri di Nona Fernández senza considerare le cicatrici che, simili a lucciole, illuminano la tenebra della nostra mente collettiva, e forse, a un certo punto della lettura, può capitarci di realizzare che anche noi, a nostra volta, siamo già cicatrici di un tempo che un giorno qualcuno si troverà a sognare. 

Un romanziere serbo, alla fine del secolo scorso, scriveva che «la letteratura ha un effetto che non è visibile». A leggere la letteratura popolata di fantasmi, di voci, di presagi di Nona Fernández si potrebbe dire lo stesso anche di certe pagine particolarmente tetre della storia umana, i cui effetti immediati forse sono pari a quelli invisibili che arriveranno quando tutto sembrerà dimenticato. Prima o poi arriva il momento in cui «il sogno ci convoca». Non possiamo sapere cosa troveremo nel suo dominio. Non possiamo sapere quando finirà, quando ne usciremo, quando si deciderà a lasciarci in pace. Tutto ciò che sappiamo è che nel sogno siamo tornati bambini. Per quanto ci sforziamo non riusciremo a distinguere i volti dei colpevoli da quelli delle vittime, non potremo spiegare il senso di colpa. Scopriremo che il tempo non esiste e che, di conseguenza, l’orrore del passato è proprio dietro l’angolo. Il telefono squilla. Tutti gli incubi, tranne uno, finiscono.

Luciano Funetta

 

 

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