Tra due giorni, il 29 maggio, uscirà per la prima volta in italiano Di perle e cicatrici (Edicola Ediciones – traduzione di Silvia Falorni), il volume in cui sono raccolti i racconti, le cronache, i bozzetti e i ritratti che il grande scrittore cileno Pedro Lemebel scrisse per il Cancionero, il programma che lui stesso curava per Radio Tierra, emittente indipendente, popolare e militante di Santiago del Cile.
Ringraziamo la casa editrice per averci regalato l’estratto che qui di seguito pubblichiamo. Leggere Lemebel è un dovere poetico.

 

KARIN EITEL

(La cosmetica della tortura, su Canal 7 e per tutti gli spettatori)

Il volto di una donna in una fotografia è talvolta immerso in un’atmosfera vaporosa che poetizza la scoperta della sua presenza confinata e immobile sulla carta. Invece, il volto di una donna ripreso in televisione implica un movimento nevrotico, un’immagine tremula resa inquieta dallo sbattere epilettico delle ciglia che ritocca continuamente la cosmesi della sua apparizione sullo schermo. E forse, quella sensazione di trovarsi di fronte a un volto elettrificato, potrebbe essere il motivo per ricordare Karin Eitel, per vedere ancora, con lo stesso brivido, la sua faccia tremolante sullo schermo di Canal 7, nel notiziario familiare per tutti gli spettatori. Il suo volto giovane, dritto nel vetro luminoso del video. Il suo volto scelto come monito, assolutamente dopato dalle droghe che le iniettò la CNI perché leggesse pubblicamente la lettera del suo pentimento. Un foglio bugiardo, scritto da loro, dove Karin rinnegava il suo passato nel Frente Patriótico Manuel Rodríguez. Nell’ebrezza confusa dei barbiturici, smentiva le flagellazioni e i soprusi nelle carceri segrete della dittatura. Quei quartier generali dell’orrore nelle vie Londres o Borgoño. Quelle case dai tetti alti dove l’eco delle grida rimpiazzava la visione coperta dalla benda. Case vecchie in quartieri tradizionali, sparse per una Santiago dissonante per il latrato-mitraglia della notte spavento, la notte golpe, la notte crimine, la notte metallica dell’arare la paura in quelle strade spinose degli anni Ottanta. 
L’apparizione di Karin sul canale nazionale, quella sera, aveva lo scopo di negare le denunce di violazioni dei diritti umani nel Cile dittatoriale, per questo misero in piedi la scena patetica della sua confessione televisiva. Per questo Karin continuava a leggere, e nella sua voce narcotizzata, raccontava un copione falso che tutto il paese conosceva a memoria. Dal suo tono tranquillo, imposto dai criminali che stavano dietro alle telecamere, trasparivano le botte, il pugno cieco, il colpo all’inguine, la caduta e il graffio sulla faccia tappato con il trucco. In quella voce estranea al personaggio ripreso, prendeva forma un coro di mai più e mai più pungolati dagli aghi della corrente, il pungolo elettrico che le irrigidiva gli occhi, lasciandoglieli aperti come una bambola tesa imbastita di iniezioni. Come una bambola senza volontà, obbligata a rimanere con gli occhi fissi, truccati da puttana (come con rabbia le avevano conciato le palpebre di azzurro e nero). I suoi occhi appena riaperti al mondo esterno, dopo tanti giorni di prigionia nell’oscurità, dopo quella lunga notte con gli occhi forzati, aperti per indovinare il colpo a man salva. Gli occhi orribilmente fuori dalle orbite aperti a quel niente, a quella flanella, a quel cencio della benda come tendaggio funebre, anch’esso aperto alla selva nera della vessazione. E dopo tanta oscurità e ricerca e denuncia, gli occhi di Karin senza espressione, completamente spalancati per la televisione cilena, per la famiglia cilena che prende il tè all’ora del notiziario.
Forse, sono pochi quelli che conservano nella memoria questa immagine di crudeltà ad alto rating del passato recente. Siamo in pochissimi ad aver imparato da quel giorno a vedere la televisione ad occhi chiusi, come se ascoltassimo instancabili la dichiarazione di Karin che si pente a frustate della sua militanza, della sua rovinosa militanza, rossa come il copihue, il fiore nazionale che tremava coagulato nel rossetto sulle sue labbra, nello scarabocchio da pagliaccio che le misero come bocca, nella crosta a forma di cuore disegnata sulle sue labbra dal trucco della paura. La sua bocca contratta dal mai, ma quel mai anestetizzato, esaurito dalla quantità di volte che dovette ripeterlo prima di filmare, quel mai obbligato dal colpo con il calcio del fucile sotto la manica e fuori campo, quel mai sfinito dal capogiro senza fine delle scariche, quel mai sostenuto dal bicchiere d’acqua che le dettero perché rimanesse in piedi, quel mai morso fino a condire la lingua con il gusto opaco del sangue, quel mai consegnato al paese nell’immagine composta, sfregiata dal trucco e vestita da brava bambina per negare la rabbia, per falsificare di trucco le occhiaie violacee e gli ematomi guadagnati nell’oscuro tunnel dell’incancellabile CNI. Forse, ricordare Karin nel calendario della televisione degli anni Ottanta, può permetterci oggi di visualizzare la sua vita lacerata da questi eventi, sapere che è stata l’unica studentessa della Universidad Católica a non poter riprendere i propri studi di traduttrice. Come se la punizione si ripetesse in eterno, in un film senza fine per le vittime dell’umiliazione. È possibile che le poche notizie che ho di Karin non mi permettano la serena oggettività per raccontare questo evento; inoltre, il riconciliato sopore di questi giorni altera la mia penna e continuo a vedere Karin che trema nell’acqua dello schermo, sommersa sempre più in basso nella storia, sempre più annebbiata dall’oblio, che muove lentamente la bocca nel mai pentito calvario del suo fiore guerrigliero.

APPENDICE – Lemebel in mansarda

Qualche tempo fa ce ne stavamo rintanati in una mansarda e a un certo punto uno di noi, che non riusciva a stare fermo – sembrava che gli fossero impazzite le gambe, che le spalle gli ballassero il boogie woogie, che le dita fossero intente a torturare un contrabasso invisibile –, apre un libro e si mette a leggere ad alta voce. Anzi, prima di attaccare dice qualche parola su cosa sta per leggere, poi dice silenzio, ascoltate, a noi ubriachi di vino e di stanchezza, di treno, di lavoro, esaltati per la notte che inizia a rinfrescarci le meningi, facciamo silenzio e ascoltiamo. Neanche due frasi e abbiamo già capito che chiunque abbia scritto quella roba, chiunque sia, è uno dei nostri. La lettura finisce. In coro ci mettiamo a gridare, ma questo chi è? Usciamo e andiamolo a prendere, portiamolo qui, facciamolo bere. Preparagli una sedia, diamogli la poltrona d’onore. Ma quello che ha letto si fa un po’ triste e dice, e no bellezze, spiacente, il tizio in questione è morto nel 2015, a sessantadue anni, a Santiago del Cile. Facciamo silenzio, rimuginiamo seriamente sulla questione, poi qualcuno fa, andiamo a cercarlo lo stesso. È mai stata un problema, la morte? A dirla tutta, in fondo, sì. Lo capiamo da come a volte ci guardiamo l’un l’altro, con terrore. La lettura e i successivi pensieri ci hanno riportato sulla terra e non ce lo possiamo permettere. Un bicchier d’acqua e uno di Pelotón de la muerte, e siamo di nuovo in pista, la pista siderale, la pista da ballo della letteratura non scritta che in quelle pagine, quelle pagine di Pedro Lemebel, genio luminoso, irriverente, poetico, dissidente, urbano e mariconesco, abbiamo visto avverarsi davanti ai nostri occhi. All’improvviso ci prende una strana nostalgia di Roma, la nostra Santiago. La mansarda si restringe. Apriamo le finestre, ci lubrifichiamo ancora la gola, lo stomaco e le cervella. Ancora cinque minuti e saremo tutti pazzi. Le frasi cristalline di Lemebel continuano a svolazzare nella stanza come uccelli tropicali, le oscillazioni della musica disegnano ombre umide di corpi, poi il silenzio di tomba come uno sterminato cielo bianco annuncia l’arrivo di aerei militari fantasma. Tutti fuori, grida qualcuno. Facciamo di corsa dieci rampe di scale e schizziamo in strada, voliamo come moscerini in fuga dal coprifuoco esistenziale che, a ben guardare, è ciò che ci tiene al riparo dal suicidio. Mentre corriamo per le vie illuminate di ambra e imbocchiamo certi passaggi bui, ci sembra di sentire la voce di Lemebel che gracchia su una frequenza radio lontana. C’è un sottofondo di cumbia, El mercado de los brujos. Oltrepassiamo case di tortura, librerie, caserme, gallerie d’arte, palazzine in cui intere famiglie sono alle prese con incubi collettivi, scantinati arredati come salotti buoni e pieni di individui che per l’anagrafe e la giustizia non esistono più. Le loro teste sono appese ai muri insieme a quelle dei trofei di caccia. Finalmente, dietro una linea di pioppi, appare il fiume. Non riusciamo a capire se sia il Po, il Tevere o il Mapocho «che continua a precipitare rabbioso, dando scossoni agli argini coloniali che nel Settantatré videro passare i cadaveri sonnambuli squartati». Ci sediamo con i piedi a penzoloni sull’acqua. Qualcuno tira fuori due bottiglie di una birra amara come medicina, un gioco di prestigio che viene accolto con ovazioni e risate. Per un po’ guardiamo le anatre che sguazzano nella corrente gonfia dei nostri occhi striati di rosso. Il freddo ci fa stringere i denti, eppure sudiamo, misteriosamente. È un buon momento. Siamo pronti, quasi distrutti, ridotti a brandelli di giovinezza. Dobbiamo fare un viaggio all’estero, in inverno, dice qualcuno. Passiamo in rassegna un po’ di destinazioni (Barcellona, Praga, Marrakech, Amburgo, Istanbul). Poi uno di noi inizia a parlare, a parlare sul serio, e la sua voce somiglia a quella di Pedro Lemebel, e a quel punto la città si allontana, nulla di quello che accade laggiù ci interessa, non il delirio fieristico, non il dibattito umano, non le antologie di processionarie e nemmeno le bande di belve che battono il lungofiume a coltelli spianati alla ricerca di froci, negri e zingari da sacrificare. Sappiamo che scriveremo letteratura destinata a un futuro breve, un futuro ridicolo, un futuro in cui non ci saremo, non saremo più insieme, e allora sì che finalmente quella letteratura non varrà più niente.

 

Pubblicato su Terranullius.