Il 25 ottobre 2020, a un anno dall’inizio di accese proteste, i cittadini cileni hanno deciso, attraverso un referendum che ha visto l’affluenza più alta dal ritorno della democrazia, di redigere una nuova Carta Costituzionale. La Costituzione vigente, infatti, era stata voluta quarant’anni fa dalla dittatura militare di Pinochet. Le proteste erano cominciate nell’ottobre 2019 in risposta all’aumento del biglietto della metropolitana. Di fatto, la popolazione cilena veniva da un anno di rincari che avevano coinvolto tutti gli aspetti della vita quotidiana: le tariffe di elettricità, gas e acqua erano aumentate insieme alle disuguaglianze che spaccavano – e spaccano tutt’ora – il paese. Il modello neoliberale avallato dalla Costituzione aveva così definitivamente mostrato le sue crepe: il Cile è stato a lungo pubblicizzato come il più stabile e fiorente paese sudamericano, un modello per tutti gli altri, uno tra i paesi ricchi dell’OCSE. Se il reddito pro-capite ha toccato la soglia del reddito medio, però, di fatto le profonde disuguaglianze hanno creato nel tempo due paesi diversi o, meglio, stratificati e sovrapposti ma inaccessibili l’uno all’altro. La privatizzazione senza freni di tutti i servizi di base, il ruolo minimo previsto per lo Stato e la riduzione di alcuni diritti sociali hanno fatto dell’aumento dei biglietti la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. E la popolazione è traboccata per le strade, nelle piazze, sui mass-media. «È una festa, una protesta e una richiesta», scriveva Nona Fernández allo scoppiare delle proteste.
Il cambio di passo di questo nuovo patto sociale appare già evidente dalla composizione della futura Assemblea Costituente. Questa, infatti, sarà la prima al mondo a vedere rispettato un criterio di parità di genere. Non solo: per la prima volta 17 dei 155 seggi saranno riservati a rappresentanti dei popoli originari. Sette andranno ai Mapuche, due agli Aymara e uno per ciascuno degli altri popoli: Rapa Nui, Yagán, Kawésqar, Diaguita, Quechua, Colla, Chango e Atacameños.
Il taglio smaccatamente neoliberale della Costituzione vigente si era tradotto nell’accentramento di tutto il potere nelle mani di pochi soggetti appartenenti a una medesima categoria sociale. La risposta a quest’accentramento è stato il pluralismo delle lotte e, allo stesso tempo, il riconoscimento di un terreno comune. Questa esperienza costituente rivoluzionaria è stata conquistata dalle lotte intersecate di studenti, lavoratori, femministe, popoli originari, e ora c’è da chiedersi: che forma istituzionale assumerà questa partecipazione inclusiva e molteplice che ha cambiato le sorti del paese?
Il prossimo 11 aprile si terranno le elezioni. Nell’attesa, abbiamo intervistato la poeta, attivista mapuche e femminista Daniela Catrileo, che ha seguito gli avvenimenti molto da vicino. Vi anticipiamo con piacere che nel 2022 l’autrice arriverà nelle librerie italiane con un nuovo titolo pubblicato da Edicola.
 

Il 25 ottobre 2020 è stato una giornata storica: si è deciso con un referendum di cambiare la Costituzione imposta quarant’anni fa dal regime di Pinochet. Cosa rappresenta questo traguardo per i cileni e in particolare per le sue minoranze? 
Rappresenta una possibilità di trasformare le condizioni di vita, immaginare un progetto politico comune e organizzare alleanze strategiche per una vita migliore, molto più dignitosa. Innanzitutto, è un piccolo passo che ci permette di mettere una pietra sopra a una costituzione profondamente disuguale. Tuttavia, questo processo non è esente da problemi relativi alla rappresentanza dei popoli originari e della comunità tribale afrocilena: non sono mancati conflitti rispetto ai numeri di seggi riservati, conseguenza delle cattive abitudini coloniali ereditate dalle istituzioni. Non posso nemmeno smettere di pensare alla mancanza di giustizia e di riparazione nei confronti degli assassinati, dei violentati e dei prigionieri politici della rivolta. Credo che, al di là dei nostri sogni, il processo in atto vada osservato e compreso insieme a queste complessità politiche.

C’è un nesso evidente tra la lotta al modello liberale avallato dalla costituzione del 1980 e i movimenti femministi e dei popoli originari. Potresti parlarcene? 
L’applicazione del modello neoliberale si è ripercossa nella privatizzazione dei beni comuni naturali e, pertanto, ha colpito i territori con la spoliazione delle forme di vita e con un estrattivismo vorace: miniere transnazionali, centrali idroelettriche, monocolture forestali. Tutto questo ha danneggiato la vita comunitaria e le relazioni con il territorio. Ovviamente, la spoliazione materiale e spirituale di quei luoghi ha un impatto diretto sui diritti dei popoli. Non è poi raro che questi spazi vengano militarizzati o che coloro che lottano per difendere questi territori siano costantemente minacciati di morte. In questo senso, il nesso comune tra le lotte è la resistenza contro quelle oppressioni e spoliazioni prodotte o incrementate dal modello neoliberale. Questa intersezione politica era presente nella rivolta, soprattutto nella sua richiesta trasversale di dignità.
 
L’assemblea costituente sarà la prima al mondo a essere composta per metà da donne. Inoltre, una parte dei seggi sarà riservata a rappresentanti dei popoli originari. Come si è arrivati a questo risultato e che ruolo possono avere i saperi, i discorsi e le epistemologie delle minoranze nel processo costituente? 
Credo che questo successo vada compreso come una conquista della stessa rivolta: senza la partecipazione massiva, la disobbedienza civile, la lotta degli studenti, i movimenti sociali, il movimento femminista e dei popoli originari, tutto questo non sarebbe stato possibile. Mi sembra molto significativo l’avanzamento della parità, ma allo stesso tempo penso che ci sia ancora molto da fare contro il razzismo strutturale. Sarei felice di credere che le epistemologie eterogenee dei popoli originari possano essere presenti in una nuova costituzione, ma ho comunque molte riserve su quanto accaduto. È senz’altro un successo storico la partecipazione di sorelle e fratelli dei diversi popoli alla discussione – di fatto appoggio alcune delle candidature – ma sappiamo che il percorso è ben lontano dalla perfezione.
 
Il presidente Piñera e sua moglie hanno descritto le proteste come una guerra e come un’invasione aliena. Potresti commentare questa percezione da parte delle classi politiche e delle élite del paese di una profonda estraneità rispetto ad altre componenti della popolazione?
Questa prospettiva è parte della narrazione privilegiata delle élite: si rifiutano di riconoscere i problemi che si vivono nel paese perché di fatto abitano in un paese diverso. Non siamo lontani dai conflitti nazionali del XIX secolo: c’è una disuguaglianza profonda, strutturale. La maggioranza delle rivolte in Cile sono avvenute per esigere giustizia, condizioni di vita minime, diritti sociali. Oggi, la stessa pandemia ha messo allo scoperto l’ignoranza delle autorità di fronte all’impoverimento dei territori.
 
La tua scrittura è consapevolmente situata nel proprio contesto. Qual è per te il rapporto tra le arti e la realtà socio-politica in cui nascono e vivono?
Non posso separare la scrittura dalla vita, tanto meno dalla politica. Per me non si tratta di sfere distinte, ma di luoghi che si sovrappongono e si intersecano. La creazione è inserita in un contesto, non può essere avulsa dagli avvenimenti sociali o politici. Mi dedico ad approfondire queste relazioni, questi punti in comune, perché sono parte della mia esperienza quotidiana, come anche di una memoria comune, collettiva. Forse appartenere a un Popolo che è stato oppresso e spogliato dei suoi diritti mi pone in una posizione di lotta costante. Non possiamo cedere: non c’è altra possibilità che continuare a resistere.

 

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