L’11 settembre 1973 il Palazzo de La Moneda di Santiago del Cile veniva bombardato dagli aerei della Forza Armata. Finiva così il governo democratico del presidente Salvador Allende e iniziavano gli anni bui della dittatura militare di Augusto Pinochet. In questa cronaca, tradotta da Silvia Falorni e contenuta nel libro Di Perle e cicatrici, Pedro Lemebel racconta i rintocchi lugubri di questa tragica ricorrenza.

E per di più c’è sempre una bella giornata l’undici di settembre, una mattina madreperlata nell’aria primaverile che contraddice la nube tenebrosa del suo ricordo. E mettiamoci pure che fino a quest’anno la democrazia lo ha canonizzato come festivo. Non si sa per quale ragione. Perché se è per contrastare le rivolte in stra­da con il rilassato ozio domenicale, è un errore, sono stati fatti male i calcoli cercando di distrarre la memoria di quel giorno con uno strano festivo che lascia l’ambiente carico di aspettative. Per­ché la città deserta aumenta la tensione, previene spaventando e, spaventando, fa riaffiorare la macchia mestruale nello strofinac­cio autunnale del ricordo. Spaventando, fa debordare la rabbia del passato con quei rapporti che rilascia il direttore responsabile del­la sicurezza nella Regione Metropolitana. E attraverso l’altopar­lante nasale, è la stessa voce, lo stesso tono autoritario, lo stesso proclama da uniforme che ripete che tutto è sotto controllo. Tut­to è calmo e ci sono millecinquecento poliziotti per ri-prevenire qualsiasi disordine.

È quasi tutto uguale al primo undici, come se si scenografasse in anticipo il teatro esasperato da una nuova messa in scena. Allora, perché tutti questi blindati parcheggiati per le strade? Perché lo spiegamento degli sbirri a cavallo? Perché tutto questo sfoggio di pattuglie ululanti, carri lancia acqua, carri lancia gas e arsenali di bombe lacrimogene, se non verranno usati? Se le legioni di poliziotti, con i loro scudi, rimangono tutto il giorno con il pube smanioso e sudaticcio, aspettando con ansia che appaia una bandierina rossa per dare il via alla repressione.

Sembrerebbe tutto preparato per giustificare la spesa milionaria in sicurezza. I soldi di tutti i cileni che vengono impiegati per montare la paranoia ambientale di un undici, il copione tragico che si dispiega durante il giorno nella funzione premeditata del suo montaggio. Anche se ci sono cittadini che dicono: Questi vandali non si possono lasciare senza controllo. Chissà che succederebbe se non ci fosse tanta vigilanza. Che disordini, che violazioni, che saccheggi ci sarebbero stati nel ‘73 se i militari non avessero preso in mano la situazione. T’immagini Pichy, che ne sarebbe stato di noi?

La mattina di un undici, anche se il sole brilla dorato, c’è chi ancora si sveglia tremante, chi non si alza, chi rimane ingarbugliato nelle lenzuola della vigilia, dormicchiando, cercando di allungare la notte precedente per cancellare o saltare i numeri paralleli di questa ricorrenza. Sono tanti quelli che non vogliono saperne del giorno che stanno vivendo, e non si svegliano, e dormono, e cercano di galleggiare nelle acque gelatinose di quell’undici. Cercano di fuggire, di evitare l’evocazione di quella data nuotando a rallentatore, nuotando contro corrente nel fiume di numeri del calendario, che inevitabilmente li sbatte contro gli uno appaiati in quelle colonne. La mattina di un undici c’è chi non ci mette la faccia, e cammina tutto il giorno mostrando solo un profilo, e l’altra parte la nasconde nell’ombra.

Forse all’alba di un undici, le contraddizioni ideologiche, in accordo con il remember tragico o festivo che le convoca, prendono posto. Così, molto presto, le famiglie militaresche, trascinando governanti e cani, si danno appuntamento di fronte alla casa del Capitano Generale per glorificare il massacro delle sue gesta. Issando vecchie foto del tiranno, rinnovano i voti e gli alleluia fascisti al suono flatulento delle bande e delle voci al comando che giurano la reiterazione del golpe. Ogni anno le anziane pinochettiste arrivano con la loro bandierina per cantare Happy Birthday ad Augusto che ogni giorno si fa più giovane, ripetendolo piegate e rognose quando il patriarca esce in strada a salutarle una per una. Così come fa con i politici di destra, che nel loro completo blu stirato, brindano con champagne quando gli spari dei cannoni fanno tintinnare i bicchieri con i violenti rintocchi dell’undici.

Una fumarola azzurra si eleva nel barrio alto alle grida di Ci-elle-e, Ci-elle-e, Ci-ci-ci-le-le-le, dale duro Pinochet. Nel colmo di un tenebroso cattivo gusto, una mamma allunga il suo bimbo vestito da berretto nero al Generalissimo che, tutto emozionato, si lascia ritrarre mentre bacia il ragazzo camuffato ripetendo la cartolina di Hitler e il suo bacio all’infanzia del Reich. Com’è eccitante, Pichy. Ci sarà un bagno? Perché mi sta gocciolando l’anima.

E come se non bastasse questa faccia tosta travestita da patria mielosa, il festino degli stivali continua alla messa con la tovaglia lunga nella Scuola Militare, dove lo stesso frate castrense alza le mani al cielo e santifica il giorno più brutale degli ultimi decenni. La seconda indipendenza, Pichy. Sicuramente è stata indimenticabile, guarda. Mi ricordo proprio bene, perché Felipe Ignacio era piccolo, e si nascose nella stanza della governante quando bombardarono La Moneda. Non te l’ha detto?