“A una storia si può rispondere solo con un’altra storia”: in questa frase si può intravedere il cuore sommerso di L’anno in cui parlammo con il mare, il nuovo libro di Andrés Montero, già autore del romanzo Tony Nessuno e della raccolta di racconti La morte goccia a goccia.

Una storia risponde necessariamente all’altra e, subito, trova eco nella successiva: storie che risuonano come i rintocchi di una campana e si rimandano a vicenda nello spazio e nel tempo, storie che innescano la miccia del dialogo, della conversazione, dello scambio di aneddoti e pettegolezzi, del racconto collettivo, e che, in questo modo, intessono i legami che tengono insieme una comunità e la proiettano lontano.

Di seguito vi proponiamo l’intervista che abbiamo fatto ad Andrés Montero durante il suo ultimo viaggio in Italia, quando è stato ospite del FLIP di Pomigliano d’Arco e del Festivaletteratura di Mantova per presentare in anteprima L’anno in cui parlammo con il mare.

Nel tuo libro, l’isola ha una voce collettiva, incarnata nel “noialtri” del narratore che racconta e va costruendo la storia. Come hai lavorato per creare questa voce corale e perché questa scelta?

Per ogni libro devo fare diverse prove narrative, cioè scrivere la storia da diversi punti di vista fino a trovare il narratore. Nel caso di questo romanzo, avevo l’impressione che ci fossero molti personaggi che volevano raccontare la storia, ma nessuna voce narrante mi convinceva fino in fondo. Così, a un certo punto, ho finito per sceglierli tutti insieme. È così che è nato questo “noi”. A distanza di tempo, mi rendo conto che aveva a che fare con ciò che stava accadendo in Cile con le rivolte e la successiva stesura collettiva di una nuova Costituzione(ancora oggi vige quella ereditata da Pinochet): c’era tutto un popolo che cercava la propria storia. E infatti il preambolo della proposta di nuova Costituzione recita: “Noi, popolo del Cile…”. E credo che questo abbia permeato la scrittura del mio libro. D’altra parte, non ci sono molti esempi letterari di narratori collettivi, quindi mi è stato difficile trovare dei riferimenti. Ma mi ha aiutato leggere Trilogia della città di K. di Agota Kristof e Io canto e la montagna balla di Irene Solà.

Jerónimo e Julián, i due fratelli protagonisti, sembrano gli unici individui distinti dal resto della comunità e, allo stesso tempo, sembrano fare da collante tra i suoi abitanti. In che modo il loro rapporto riesce a tenere insieme la trama e lo spazio-tempo dell’isola? Quale dinamica narrativa hai voluto esplorare attraverso la gravità esercitata dalle stelle binarie che sono i due gemelli?

Il ricongiungimento dei gemelli Garcés offre agli isolani un pretesto per raccontare, per ritrovarsi, per spettegolare. In Cile, il pettegolezzo (il “cahuín”) è fondamentale nelle dinamiche narrative e nelle relazioni sociali, soprattutto nelle piccole comunità. Mi interessava costruire la storia a partire dalla memoria collettiva e un po’ giocosa degli aneddoti familiari. 
D’altra parte, sia Jerónimo che Julián sono formidabili narratori. Julián oralmente e Jerónimo come scrittore. Gli isolani riconoscono in questi due fratelli i narratori di cui ogni comunità ha bisogno per esistere e perciò insistono affinché superino le loro differenze, perché capiscono che una comunità non può restare senza un narratore. E mentre si prepara questa riconciliazione, decidono di essere loro, per il momento, a ricoprire quel ruolo. 

Nel tuo romanzo, molti racconti dei personaggi derivano da storie ascoltate da familiari o isolani più anziani, fissate e poi reinventate nel tempo. Qual è stata la tua esperienza personale con la narrazione orale? In che modo questa esperienza ha influenzato il modo in cui hai imparato a scrivere e raccontare?

Vengo da una famiglia nella quale si passa quasi tutto il tempo a raccontare o ricordare storie di famiglia. È come se avessimo il terrore che vadano perse. Le raccontiamo più e più volte, riproponiamo qualche frase famosa del personaggio di un certo aneddoto… È una cosa che accade in diverse famiglie e che Natalia Ginzburg ha ritratto magistralmente in Lessico famigliare. In questo modo l’oralità è sempre stata presente nella mia vita, con un posto di assoluto protagonismo. In seguito sono diventato un narratore orale professionista: il mio lavoro consiste nell’andare a raccontare storie nelle scuole, nei bar, nei teatri e così via, ma anche nell’andare ad ascoltare le storie di altre famiglie, di altre città, di altri popoli e altre terre… Mi interessa molto il modo in cui le storie vengono raccontate, le differenze. Mi interessa ancora di più come vengono scritte. Poi, quando scrivo, inserisco ciò che ho imparato ascoltando coloro che raccontano storie nelle loro case. Questo dà il tono “orale” che molti riconoscono nei miei libri: si leggono come se qualcuno te li stesse raccontando.

Citando Walter Benjamin, parli della differenza tra il contadino che raccoglie, cura e trasmette la memoria e il marinaio che, facendo esperienza, porta storie da lontano. Come ti sei relazionato con queste figure nel tuo processo di scrittura? In quale ti riconosci di più e perché?

Le idee di Benjamin sulla narrazione sono sempre state illuminanti per me. Nel suo saggio Il narratore definisce questi due tipi di narratore, che per me rappresentano, come aggiungo nel romanzo, anche due modi di intendere il mondo: partire o restare, cercare o trovare, esplorare o abbracciare. Mi interessano entrambe le forme di narrazione, credo allo stesso livello. C’è una scena immaginaria che ho inventato per spiegarmi questa idea: perso in una foresta, incontro un eremita che in gioventù ha viaggiato in tutto il mondo. Mi offre due possibilità: raccontarmi o una giornata tipica della sua vita da eremita o la vicenda più bella che gli è capitata nei suoi anni da viaggiatore. Costretto a scegliere di ascoltare una sola storia di questo uomo ipotetico, non riesco a decidere se preferisco l’una o l’altra. Ma questa incertezza, credo, può anche rappresentare un percorso.