Trascurare ciò che si trova ai margini dello sguardo: certo non commette questo errore Vivian Deacon, l’improbabile detective con un passato da clochard protagonista di Suture nella nebbia, il nuovo romanzo di Marco Belli, che già abbiamo conosciuto con Uno sbaffo di cipria Canalnero.
Un acume sviluppato attraverso le necessità, la durezza e la libertà imposte dalla vita di strada, un carattere unico nel suo genere e una combriccola fondata su solidi legami, Vivian è inarrestabile nell’indagare e risolveremisteri. Un’energia, una forza e un’intelligenza, le sue, che trovano linfa in un’esperienza eccentrica e spesso dolorosa, in una storia di emarginazione che nell’invisibilitàoffre un dono e una condanna. Con Vivian, torna protagonista anche il territorio delPolesine, enigmatico e precario, in cui l’acqua rappresenta una cornice e una minaccia.
Ci siamo fatti raccontare dall’autore la fragile e calorosa comunità di Magnolina, i suoi abitanti, gli orizzonti del Polesine, su cui incombe il cambiamento climatico, la persona a cui è ispirata Vivian e l’eredità stimolante e commovente che ha lasciato.

 

Vorrei partire dalla tua protagonista, Vivian. Sappiamo che questo personaggio si ispira a qualcuno che hai conosciuto da vicino. Ti piacerebbe parlarci di questa persona e del suo rapporto con il mondo di finzione che hai costruito?

La persona a cui mi sono ispirato purtroppo non c’è più: è morta due anni fa. Si chiamava Elizabeth Rose Alper. Elizabeth era molto conosciuta a Ferrara. Era un’amica, l’ho conosciuta in un centro sociale che abbiamo fondato ormai 13 anni fa, La Resistenza. Lei aveva rinunciato ad abitare in una casa già da diversi decenni e viveva per strada. Nel periodo in cui cominciò a frequentare il centro sociale – nel 2011 – avevo un libro nel cassetto, ma mi mancava un protagonista forte. E poi, un giorno in cui avevo un turno al bar, c’era lì Elizabeth che, particolarmente insistente (non era una donna amabile quanto Vivian), si faceva i fatti degli altri. A un certo punto mi sono detto di voler cominciare a scrivere di lei, per prendere distanza da quella situazione, abbastanza ansiogena. Ed è lì che mi sono reso conto di come una donna che vive per strada, e che quindi è l’invisibile per eccellenza, sarebbe stata una perfetta detective. Aggiungiamo poi a questo il fatto che Elizabeth era laureata in medicina. Così ho cominciato a scrivere la prima scena di Uno sbaffo di cipria, dove la troviamo proprio al bar del centro sociale, a guardare film di Bollywood bevendo un caffè lungo. Il personaggio era fatto. Restava solo da metterle il turbante, la felpa della Best Company, da avvolgerla in quella sorta di bozzolo che la caratterizzava, ed ecco la detective perfetta. Senza pistola, che non conosce il jujitsu, magari non una femme fatale, ma una donna di grande raziocinio e capace di ascoltare, che fa attenzione alle cose che le stanno attorno.

Quindi Elizabeth ha avuto modo di leggere i tuoi romanzi precedenti.

Sì, è venuta anche alle presentazioni, in particolare del primo dei due libri. Ma li ha avuti entrambi.

Vuoi parlare di come si è evoluto il personaggio?

Nel primo romanzo Vivian è una clochard a tutti gli effetti, vive per strada. Alla fine del libro conosce una donna di nome Zenaide, un po’ una domina erbaria, una sorta di strega, di maga di campagna, che diventa l’amica e la famiglia che non aveva mai avuto. Vivian continua a mantenere vivo il suo istinto allenato dalla strada, ma trova finalmente una casa, lontana da Ferrara, dove può farsi una famiglia. Una famiglia rappresentata in primo luogo da Zenaide stessa e poi da tutta una serie di personaggi che le daranno una mano nella risoluzione dei casi successivi. Incontrerà tra gli altri, per esempio, Pietro, il Watson della situazione, un ragazzo che studia criminologia e che la scarrozza a destra e sinistra (parliamo comunque di una donna sulla settantina). 

Mi interessa, della persona e del personaggio, anche la sua competenza. Le rappresentazioni che abbiamo delle persone che vivono condizioni di marginalizzazione sociale, infatti, tendono di solito a sminuirle e vittimizzarle. Vivian invece è esperta e capace.

Quello che dici è vero, abbiamo un’immagine del clochard come del povero e inetto, del fallito, comunque di una persona che ha avuto una scarsa educazione. C’è una vera e propria aporofobia, la paura del povero, dei margini. Sai quando qualcuno si sente male e si chiede a gran voce se c’è un medico? Lei accorreva, ma non le credeva nessuno. In Canalnero Vivian cerca di intervenire ma nessuno le dà credito. Come può un medico, che normalmente è ai vertici della scala sociale, essere una clochard, che invece è nella parte più bassa?

Elizabeth era un personaggio incredibile da questo punto di vista.

Era una donna che frequentava ambienti intellettuali: l’università, il cinema Boldini (un cinema d’essai ora chiuso), il centro sociale La Resistenza. Ha sempre partecipato alle marce per la pace e alle manifestazioni politiche che si facevano in centro a Ferrara. Insomma, è sempre stata una donna politica. E amava molto stare con i giovani. 

È arrivata in Italia nel ’68, col dollaro forte, per prendere una specializzazione in medicina. Prima è stata a Roma, per poi spostarsi a Ferrara. Sono successe delle cose, ha incontrato uomini maneschi, più volte, già negli Stati Uniti. Ha avuto un grande amore, a diciott’anni, ma le famiglie si sono messe di mezzo. Lei ne raccontava come il suo ultimo amore. Se Vivian è inglese, Elizabeth era di Brooklyn e aveva una voglia di libertà tipicamente americana. Non sopportava l’esistenzialismo. Piuttosto che perdersi un film che finiva tardi, preferiva rinunciare al letto della Caritas. A costo di vivere al freddo, si faceva la sua vita. 

I personaggi del romanzo fanno i conti con il rimorso, la colpa e la responsabilità, con la dimensione della punizione e dell’assoluzione. E lo fanno all’interno di un universo affettivo e relazionale comunque connotato da tenerezza e solidarietà. Vorrei chiederti di parlarci di questa comunità e dei rapporti che la legano.

Ho vissuto io stesso in quella comunità, Magnolina, un paesino di appena 100 abitanti sperso nel centro del Polesine, mezzaluna fertile compresa tra l’Adige e il Po e, ancora, tra i due fiumi più piccoli che vi scorrono in mezzo, il Canalbianco e il Collettore Padano. Lì, si trova questa micro-comunità in cui tutti si conoscono e dove in qualche modo vige un concetto anarchico di mutuo appoggio. Tutti sanno fare qualcosa e così ci si aiuta l’un l’altro. Io sono un insegnante, e posso dare lezioni a un ragazzino in difficoltà, ci sono il meccanico e l’elettricista che danno una mano, tutti si aiutano a traslocare.

Magnolina ruota attorno a una trattoria – la Trattoria Margherita, che nei romanzi ho ribattezzato Trattoria Da Lina – che fa da punto di riferimento per tutta questa comunità. 

Si vive con poco, perché c’è poco, ma grazie a una grande solidarietà.

Vivian si trova quindi in questa comunità, fatta tanto di polesani un po’ fermi nel tempo quanto di persone fuggite da qualcosa. Il Polesine è sempre stato un luogo di fuga: lo è stato per gli eretici o per chi doveva nascondersi alle forze dell’ordine, ma anche per chi dalle forze dell’ordine era protetto – come è il caso di uno dei personaggi. 

Zenaide, in particolare, è uno dei personaggi più amati. È una di quelle figure femminili delle campagne che segnano, che curano le storte, il Fuoco di Sant’Antonio, la paura – quando non c’erano gli psicologi in queste comunità c’era chi toglieva la paura con una croce. Un personaggio che cura con le piante, con la fitoterapia e con una sorta di magia verde. Dall’altra parte abbiamo Pietro, un ragazzo dei suoi tempi, con il suo gel e i suoi tatuaggi, che studia a Ferrara. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, Pietro si sta specializzando in criminologia: e quale tirocinio migliore che affiancare una persona come Vivian Deacon?

In effetti, c’è da dire che è assente una dimensione di cui Vivian, da londinese qual è, ogni tanto sente la mancanza: Vivian è un po’ una “donna della folla”, per citare Poe, e le manca stare in mezzo alla gente. Ma poco a poco si innamora di questo luogo incredibile, dove il tempo passa in maniera diversa, dove si vive con il ritmo delle stagioni, dell’uomo antico. Si va a letto presto e ci si alza presto, con il sorgere del sole. 

Simone Weil e Milva: sono loro le epigrafi che accolgono il lettore nel libro. Perché hai scelto proprio queste due citazioni?

Penso che la frase di Simone Weil, “L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità”, dica qualcosa di importante. Prendersi cura di qualcuno è avere attenzione per qualcuno. 

Vivian Deacon è una persona che ha sperimentato l’isolamento, a cui nessuno prestava attenzione. E a volte la disattenzione, il fatto che non si badasse a lei, le ha permesso di essere una perfetta pedinatrice. Se sei un criminale non sospetteresti mai che a pedinarti sia una signora di 70 anni carica di borse. Sto ragionando molto sul tema dell’attenzione, su come prendersi cura, di se stessi e degli altri, ed è un po’ questo il tema ricorrente nelle pagine di Suture nella nebbia, come anche dell’Elba Book Festival di quest’anno.

La seconda citazione è dedicata a Milva. D’altronde, nel romanzo è presente un personaggio che si chiama Milva e che ne canta le canzoni. Parliamo di una delle più grandi cantanti che abbiamo visto in Italia. Una donna che è partita dai margini dell’impero, da Goro, un luogo lontano dal mondo, e che è arrivata a lavorare con Strehler, con Astor Piazzolla, a diventare non solo una grande interprete della musica leggera italiana ma anche una vera e propria icona per gli intellettuali. Tra l’altro, come cantrice di Brecht in L’Opera da tre soldi. Un personaggio incredibile, se si pensa a qual è stato il suo punto di partenza.

La musica, in ogni caso, ha un ruolo molto importante un po’ in tutti i miei libri, dove segue la narrazione dall’inizio alla fine.

In che modo la tua passione per la fotografia incide sulla tua immaginazione narrativa?

Prima di scrivere un romanzo lavoro un po’ come un regista. Faccio dei sopralluoghi, scatto delle foto. Il mio primo approccio al territorio di cui voglio parlare avviene attraverso le immagini fotografiche, che poi metto assieme per strutturare la trama. Il mio resta sempre un occhio fotografico prestato alla scrittura. Di conseguenza, la mia può essere una scrittura che guarda molto al cinema. Molta della mia ispirazione è cinematografica più che letteraria. 

All’inizio del romanzo troviamo disegnata una mappa e, nel prologo, la narrazione prende le mosse da alcuni riferimenti geografici (terra e mare, nord ed est). Il rapporto con il territorio, esplorato con l’occhio del fotografo, con la narrazione dello scrittore, con lo sguardo indagatore della detective, è centrale nei tuoi romanzi. Vorrei quindi chiederti di parlare proprio del territorio in cui si muove la tua protagonista.

Per me, il Delta è diventato un oggetto di studio. Uno studio che ho iniziato, fotograficamente, insieme a Sandro Abruzzese con un libro uscito qualche anno fa per Rubbettino. Niente da vedere è una sorta di portolano che abbiamo messo in piedi in due o tre anni di viaggi verso est per esplorare l’estrema Pianura Padana, alla ricerca di tutti quei luoghi dove non c’è nulla da vedere, dove non c’è monumentalità, niente che si imponga come oggettivamente bello. Ecco, in un luogo dove sostanzialmente non c’è la dimensione della verticalità, ma solo quella dell’orizzontalità, si fa ancora più forte un certo sentimento di perdita di senso. Questo è stato il mio primo approccio al territorio. 

Successivamente, con un collettivo nato un paio di anni fa e che raccoglie scrittori, urbanisti, fotografi, attori, abbiamo cominciato a studiare il Delta alla luce del cambiamento climatico. Il Delta inteso come il canarino in miniera: il primo a lanciare l’allerta rispetto a un pericolo imminente. 

Abbiamo una terra che si trova in parte sotto il livello del mare, mantenuta a galla soltanto grazie all’incessante lavoro di decine e decine di idrovore. Un territorio che non è altro che una parentesi, anche se ci sembra che le cose siano sempre state così. Nel libro cito più di una volta questo inevitabile scenario futuro. E non si sta parlando di 200 anni, ma di 70. Mia figlia, che ha cinque anni, potrebbe arrivare a vedere la linea di costa spostarsi verso Ferrara. 

Quali sono i tuoi autori di riferimento, in particolare letterari, ma a questo punto anche cinematografici, in particolare rispetto al genere giallo? D’altronde, hai già nominato Poe e il suo “L’uomo della folla”.

Sicuramente Edgar Allan Poe è un punto di riferimento. Ci sono poi i classici della storia del giallo: oltre a Poe, Agatha Christie e Arthur Conan Doyle, per esempio. Dei più recenti amo molto Massimo Carlotto, che ha sempre messo al centro della propria narrazione il territorio, vero e proprio protagonista del romanzo. Carlo Lucarelli, sicuramente. Enrico Pandiani. Questi sono forse quelli a cui mi sono più ispirato. E poi tutta una cinematografia gialla. Ad esempio, pensando al Polesine, il Pupi Avati di La casa delle finestre che ridono, oppure David Lynch, per certi tipi di atmosfere. Ecco, direi che questi sono un po’ i miei punti di riferimento.