Paesaggi vasti e desolati, una scia di morte, un uomo, un cavallo e il loro ostinato andare, uno spazio in cui si mescolano geologia e metafisica. Questi sono gli elementi fondamentali che definiscono lo scenario dell’ultimo romanzo di Mike Wilson, premiato autore di padre statunitense e madre argentina la cui stessa vita, sin dall’infanzia, è stata definita dal viaggio.
Il protagonista di Dio dorme nella pietra è una figura amara e determinata, dolente e solitaria, ma tesa a far bene, che nei suoi tratti aspri e onesti ricorda l’Ethan Edwards protagonista del classico di John Ford Sentieri selvaggi – che non a caso Wilson cita tra le proprie principali fonti d’ispirazione.
Ma se l’eredità del genere western si imprime nell’immaginario dell’autore, Wilson la supera e la porta nella contemporaneità, allo stesso tempo allungandosi indietro nel tempo e arrivando a radicarsi nei misteri delle antiche religioni. In Dio dorme nella pietra ci spingiamo infatti oltre l’orizzonte morale tanto dell’eroe maschio proprio del cinema americano degli anni Cinquanta, quanto del mondo in cui viviamo oggi, in cui pretendiamo di conoscere il posto e il fine di ogni cosa.
Quello del protagonista è un viaggio interiore lungo gli itinerari infiniti di una waste land dai lineamenti americani, ma anche un’avventura della materia, vivida e avvincente. Un romanzo che si fa “sentire”, mentre interroga in profondità i nostri percorsi di senso.
Come presenteresti Dio dorme nella pietra a un potenziale lettore?
Credo che il modo più diretto sarebbe quello di presentarlo come un western, forse anche come un romanzo esistenziale.
E, in effetti, il tuo romanzo ha proprio il sapore di un film western. Soprattutto per la scrittura, oggettiva e di sicuro impatto visivo. La produzione cinematografica, non solo di genere western, ha influenzato il tuo linguaggio e il tuo immaginario?
Sì, senza dubbio. Quando ero bambino, i classici western venivano trasmessi spesso in televisione. Serie e film come Sentieri selvaggi di John Ford e la trilogia del dollaro di Sergio Leone, per nominarne solo alcuni. Nel caso di questo romanzo, il ritmo e le immagini hanno elementi che provengono sicuramente da lì. Mi interessava narrare con il movimento, a differenza di quanto ho fatto in altri romanzi in cui non succede molto.
Ci sono altri punti di riferimento artistico-letterari di cui senti l’influenza?
Sì, nelle mie influenze metterei un po’ di tutto: dalla letteratura alla musica, fino alla fotografia, ma anche certi luoghi in cui sono stato. Dipende dal romanzo. Nel caso di Dio dorme nella pietra, forse i riferimenti più chiari per me sono i testi apocrifi, i testi gnostici, l’Antico Testamento, i libri giudeo-cristiani della violenza, della lebbra e del dio severo.
Nella concretezza della scrittura, che si attualizza anche in una serie di morti rappresentate in maniera palpabile, materiale, si delinea uno scenario astratto, uno spazio geologico che però non si lascia mappare dalla geografia. Cosa hai cercato narrativamente in questo scarto, nel vuoto che si viene a creare nello spazio liminale del testo?
Per immaginare il paesaggio mi sono basato su una serie di luoghi reali, che nel romanzo rappresentano un importante punto di riferimento. Penso, per esempio, a un itinerario che ha inizio nell’Arizona settentrionale, all’interno di una riserva Navajo nella Monument Valley, e che si estende verso Nord arrivando fino al Montana. È un viaggio che ho fatto in diverse occasioni, passando dal rosso del deserto alle montagne bianche di neve. È da qui che nasce il libro: volevo scrivere di quel percorso e il western era la maniera più logica per farlo. Nel romanzo non identifico esplicitamente i luoghi, ma nella mia testa ho ben chiaro dove si trova ciascuno di essi.
E cosa vi cerca il protagonista? In effetti, non ci lasci intravedere che qualche sprazzo della sua interiorità. Sembra che il rapporto fra spazio interno ed esterno si sia ribaltato e che, in questo movimento, l’interpretazione dei segni si faccia più difficile. Come nei sogni.
Sì, credo che sia così: c’è un continuo movimento di andata e ritorno tra il paesaggio e la geografia materiale da una parte e quelli che il protagonista naviga nella propria mente dall’altra. Credo che sia contemporaneamente in fuga e all’inseguimento, che cerchi di dimenticare ciò che si lascia alle spalle e che vada avanti cercando di raggiungere una redenzione che non troverà.
Si potrebbe forse dire che la morte, in queste pagine, abbia una natura espansiva: passa inarrestabile dall’uno all’altro, sul filo di una lama o del contagio. La vita, invece, non sembra avere la stessa caratteristica. Puoi dirci come ti rappresenti questo rapporto?
Non ci ho pensato molto. Ho l’impressione che i vivi che il protagonista incontra nel romanzo siano spenti: nessuno sembra aspirare a vivere, come se in quel luogo lo stato naturale delle cose fosse la morte e come se coloro che perseverano dei sacrileghi.
Delle tre citazioni in epigrafe due sono tratte dal Levitico e una è firmata dal filosofo Ibn Arabi. Cosa ti ha spinto ad associare tra loro questi riferimenti testuali? Il misticismo che li accomuna gioca un ruolo nel tuo lavoro?
Penso che i riferimenti al Levitico illustrino l’orrore cosmico che caratterizza l’Antico Testamento, come il terrore della lebbra, o quello dei sacrifici offerti ad Azazel. Mi interessa questa tensione tra sacro e profano, in che modo convivono in questi testi. Per quanto riguarda Arabi, si tratta di una citazione che si accorda perfettamente con il carattere geologico e teologico del romanzo.
Cosa ha significato per te immaginare e raccontare, in qualche modo inseguire, questo tuo protagonista sempre in movimento?
Per me, come di solito accade quando scrivo, è stato un modo per cercare di dare un senso all’abitare quel particolare luogo, trovarmi lì, muovermi con esso.