Se non lo facciamo ora, ce ne pentiremo per sempre. Diego Alfaro Palma è uno scrittore e poeta cileno. In questa cronaca, pubblicata la prima volta sul suo blog El panorama antes nosotros il 24 ottobre 2019, racconta il livello di non-dialogo e di violazione di ogni diritto che il governo cileno sta usando per reprimere la protesta e lancia un appello affinché gli amici del Cile contribuiscano a rompere l’assedio mediatico che il paese sta vivendo in questi giorni. La cronaca è stata tradotta per noi da Giulia Grimoldi, che ringraziamo. La foto è di Juan Carlos Villavicencio.
A Patricio Bravo
Tequeños, chaparritas, empanadas, banane, acqua fredda, limoni, sopaipillas, fazzoletti, bandiere, pantaloni, mele, patatine fritte, arepas e un tizio seduto a un banchetto con un telefono fisso (che cosa cazzo venderà?). Le haitiane allattano i neonati all’ombra, dove le vecchiette si sventagliano; un impiegato batte con un bastone sul secchio dell’immondizia tenendo il ritmo. I tassisti suonano il clacson, le autoradio trasmettono a tutto volume Quieren dinero dei Los Prisioneros; un gruppo di trenta persone balla la cueca in piena Alameda, il numero di quelli che si spingono fino a qui è in aumento e non c’è muro che non sfoggi con orgoglio uno slogan contro il presidente, la polizia, i ministri, i militari: contro qualunque politico. Addirittura qualche esaltato chiede il ritorno di Michimalonco, il capo picunche che oppose una strenua resistenza alle truppe spagnole e rase al suolo Santiago. Modificando una frase di T. S. Eliot: in Cile tutto il tempo è presente.
Dai balconi la gente invoca Víctor Jara con gli stereo. Le università e i sindacati si uniscono alla mobilitazione. Madri e figlie, nonni e nipoti, gente di ogni classe sociale: siamo tutti stanchi. I cortei attraversano le città, uniscono Viña del Mar a Valparaíso, fanno ballare Concepción, bloccano le strade di Punta Arenas e Puerto Montt. Il personale sanitario esce in strada, i portuali, i professori. Scrivo queste righe mentre mi riprendo dallo spray al peperoncino in una piazza. Mi ha quasi messo al tappeto: stavolta sì che era forte. La moltitudine non si è fermata, e così deve essere. “Se non lo facciamo ora, ce ne pentiremo per sempre”, dicono gli autisti del metrobus da Limache a Valparaíso, stando a quanto racconta il mio amico Pato Bravo. “Il treno attraversa le città e, quando passano i cortei, il macchinista fa fischiare la locomotiva in segno di appoggio. La gente è ben felice di ricevere sostegno. I cabros a bordo esortano i coetanei a continuare la lotta, a non fermarsi”. Ma veniamo alla domanda: ci sono certezze di cosa si riuscirà a cambiare? Quale sarà il segnale del successo? Sarà una vittoria nei limiti del possibile o sarà totale? Quello che si dice in giro è vero: stanno cercando i capi del movimento studentesco nelle loro case; la polizia entra senza permessi, senza un mandato di perquisizione; esistono dei video, i mezzi di comunicazione li stanno facendo circolare e l’Instituto Nacional de Derechos Humanos lo conferma, assieme al dato dei 2138 arrestati, 376 feriti, di cui 173 raggiunti da colpi di arma da fuoco, 5 morti confermati uccisi da agenti dello stato (e altri 10 ancora da confermare), oltre a 44 procedimenti giudiziari in corso. Quindi, ripeto la domanda: c’è qualche certezza? Di fronte a questi dati il ministro dell’interno Chadwick non intende dimettersi. Se ce lo trovassimo davanti, in molti gli chiederemmo: che cosa aspetta? Dico questo e la radio mi dà conferma: è in atto una chiamata obbligatoria alle riserve attive dell’esercito per rafforzare le “operazioni” in questo “Stato di emergenza”. Dall’altra parte gli incappucciati si incazzano e distruggono tutto. I cicli della repressione si rinnovano come la primavera, però non c’è dubbio: qualcuno deve dimettersi.
Se le cose continuano con questa forza fino alla fine della settimana, è probabile che questo paese diventi una voce inconfondibile, una voce che ha bisogno ora più che mai di tutte le voci da fuori: abbiamo bisogno anche di mani e piedi perché questo stadio del neoliberismo sta entrando in una fase superiore del controllo completo delle forze. I dirigenti mapuche affermano giustamente che queste modalità sono le stesse che il governo ha adottato nei loro confronti per decenni, quel livello di non-dialogo e violazione di ogni diritto esistente è stato l’indiscutibile laboratorio della furia dell’élite e dei suoi fedeli poliziotti. Per questo, traduttori di tutto il mondo, amici di altre parti, unitevi: è urgente rompere l’“assedio mediatico” di questo paese di latifondisti.
Vicino a me un padre fa volare un aquilone, un volantín come li chiamiamo qui, uno che ha i colori della bandiera nazionale e che malgrado il poco vento riesce a prendere quota. In fondo, un gruppo di persone intona El derecho de vivir en paz, il famoso inno di Víctor Jara, e canta a squarciagola. Vicini di diverse fazioni e opinioni discutono di creare un’assemblea municipale, di organizzazione, parole un tempo a rischio di estinzione in questa parte del mondo. Gli studenti giocano a calcio sui marciapiedi. Le truppe di Michimalonco non dormono, vigilano dietro le araucarie. La sera accende le sue luci, s’aprono i papaveri e altri fiori, genitori e figli battono le mani per zittire lo stridore degli elicotteri.