Dal 12 al 17 maggio María José Ferrada ha girato l’Italia per presentare il suo romanzo Kramp. Un tour che l’ha portata a Torino, Milano, Bologna, Firenze e Roma, in compagnia della sua traduttrice Marta Rota Núñez e degli editori Alice Rifelli e Paolo Primavera. Per chi vuole rivivere quei momenti o per chi non ha potuto partecipare, riportiamo qui una selezione delle domande più ricorrenti con le relative risposte, in cui l’autrice svela curiosità e retroscena sulla sua scrittura e sul romanzo con cui ha vinto i più importanti riconoscimenti letterari del suo paese.

I personaggi di Kramp non hanno un vero nome, ma sono indicati soltanto da una lettera. Tutti tranne la madre, che addirittura non viene mai nominata. A che cosa è dovuta questa scelta?

Kramp è un romanzo in buona parte autobiografico. È un regalo per mio padre che, proprio come D, il padre della narrazione, lavorava come commesso viaggiatore. Da bambina, ogni tanto accompagnavo lui e i suoi colleghi nelle loro spedizioni, e quindi tutti i personaggi che descrivo e gli aneddoti che racconto sono veri. Ma, visto che il loro comportamento non è sempre stato dei più corretti, ho deciso di non svelare il loro nome e di indicarli soltanto con l’iniziale. È un modo per difenderne l’identità, ma è anche un gioco, un invito a riconoscersi che rivolgo loro.  Si tratta di personaggi tutto sommato innocenti, che si rifugiano in una visione della vita ancora bambinesca per sfuggire dal peso della realtà. La madre, invece, è diversa; è un personaggio che non rifugge la realtà, anzi, è profondamente ancorata in essa. Tanto da essere una madre “a metà”, spezzata dagli eventi, che trova il coraggio di reagire soltanto quando vede la sofferenza di sua figlia. Per questo non ha nome, perché con lei non mi sono permessa di giocare come ho fatto con gli altri personaggi.

Su Il Sabbatico (in onda su RaiNews24) María José Ferrada racconta Kramp

Kramp è il tuo primo romanzo, mentre tutti i libri che hai scritto in precedenza erano libri di poesia. E anche nella tua prosa, in realtà, c’è sempre una sonorità estremamente poetica. Ci racconti com’è arrivata la poesia nella tua vita e perché ci è rimasta?

Ho scoperto la poesia grazie a mio padre. Quando ero piccola abitavo a Temuco, una città nel sud del Cile in cui piove moltissimo, e spesso, per passare il tempo durante quei lunghi pomeriggi di pioggia, mio padre ci recitava delle poesie. Tra i suoi poeti preferiti c’era Pablo Neruda, e ricordo bene che un giorno ne lesse una che diceva qualcosa come “la cipolla è la stella dei poveri”. Quell’immagine mi rimase subito impressa e penso che sia la migliore rappresentazione del significato che do alla poesia. La vita non è sempre facile e non possiamo sapere se un giorno sulla nostra tavola ci sarà soltanto una cipolla, ma sono certa che se saremo in grado di vedere una stella in quella cipolla, la nostra prospettiva sarà di colpo migliore. La poesia per me è questo: più che un genere, è uno sguardo sulle cose. Uno sguardo in grado di illuminarle, di scaldarci nei momenti difficili. È come un cappotto che cuciamo dentro di noi, non fuori, e che per questo non si rovinerà mai, nemmeno durante il più violento dei temporali. Per questo credo sia importante avvicinare i bambini alla poesia: per donare loro quello sguardo sul mondo, che lo rende un luogo più gentile e accogliente, a prescindere dalle difficoltà.

Più che un genere, la poesia per me è uno sguardo sulle cose.

Proprio come nella poesia, la tua scrittura è estremamente sintetica ed essenziale. Ogni parola sembra scelta con estrema cura e il silenzio ha un ruolo preponderante. A che cosa è dovuto questo tuo modo di scrivere?

Sì, è vero. Quando scrivo, i silenzi per me hanno lo stesso peso delle parole, se non di più. In parte penso sia dovuto alla mia frequentazione della poesia, ma credo che abbia soprattutto a che fare con la mia infanzia. Faccio parte di una generazione che è nata e cresciuta sotto la dittatura di Pinochet. In una famiglia di classe media come la mia, che non prese mai apertamente parte alla resistenza, c’era una regola non scritta ma ben chiara: in casa non si parlava di politica. Nominare ciò che stava succedendo là fuori era vietato, specialmente in presenza di noi bambini, che senza accorgercene avremmo potuto dire una parola in più e mettere in pericolo qualcuno. Il ricordo che ho, quindi, è quello di un’infanzia silenziosa: tutto era avvolto in un manto di silenzio teso, spaventato e scomodo. Ci siamo abituati a dire tutto senza aprire bocca, siamo diventati degli esperti nell’interpretare quei silenzi, al punto da non avere parole per nominare alcune cose. Non è stato facile, ma sento di averne tratto comunque qualcosa di positivo: ho preso quel silenzio e ne ho fatto uno strumento per la mia scrittura.

Ci siamo abituati a dire tutto senza aprire bocca, siamo diventati degli esperti nell’interpretare quei silenzi,
al punto da non avere parole per nominare alcune cose
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Nonostante tutto questo silenzio, Kramp è un romanzo estremamente denso. Dentro c’è un racconto familiare molto intimo, ma non solo; c’è lo sfondo della Storia con la S maiuscola, c’è uno spaccato concreto e nostalgico di quel Cile polveroso degli anni Settanta. Qual è il vero nucleo di questa storia, per te? E come definiresti Kramp a chi non l’ha ancora letto?

Mi vengono in mente due diverse definizioni. La prima, è che si tratta di un romanzo sulla scomparsa: la scomparsa di un mestiere, la scomparsa degli affetti, la scomparsa di uno sguardo sul mondo e sulla vita che è tipico dell’infanzia e che ci abbandona, spesso angosciosamente, quando diventiamo adulti. Qualcuno una volta ha descritto Kramp come “un romanzo sul dolore del crescere”, e penso che sia una lettura molto indovinata. Una seconda definizione, invece, è quella che diedi una volta a un editore, quando Krampera ancora soltanto un’idea. Gli dissi: “Voglio scrivere un romanzo fatto solo di personaggi secondari”. E probabilmente è proprio quello che ho fatto, ed è il motivo per cui ho deciso di raccontare il mondo dei commessi viaggiatori: perché provo un’immensa tenerezza nei confronti di tutti quei personaggi che non hanno niente di speciale, quelli che commettono errori, che provano paura, che non hanno il coraggio di prendere una posizione. Che non fanno la storia, ma piuttosto ne vengono travolti. Trovo che ci sia una grande bellezza in quell’imperfezione che, in fondo, accomuna molti di noi.