Mirko Orlando è un fotografo, fumettista e giornalista. Pubblica i saggi di antropologia visiva “Fotografia post mortem” (Castelvecchi, 2013) e “Per una teoria generale della fotografia post mortem” (Il Mulino, 2014). Realizza reportage sui fenomeni di marginalità sociale per Barricate, A, Domus e Tracce. Pubblica il libro fotografico “Il volto (e la voce) della strada” (Lindau, 2012) e la graphic novel “Paradiso Italia” (Edicola Ediciones, 2019)
Ci presenti la tua opera di graphic journalism “Paradiso Italia”?
È un’opera che parla di migranti, del loro e del nostro destino. In un momento storico in cui tutti parlano di sbarchi, mi sono chiesto che fine facciano quelli che in un modo o nell’altro sono sbarcati, ed è così che ho incrociato le rotte di Ventimiglia, Torino, Bardonecchia, Foggia. È stato un modo per dare un volto ai numeri che ci vengono forniti dai mass media, e perciò una strategia per riportare a un livello comprensibile ciò che altrimenti rischia di restare pura astrazione.
“Paradiso Italia” è una graphic novel in cui si alternano e si fondono l’arte della fotografia con quella del fumetto. Quali sono i fotografi e i fumettisti/illustratori cha hanno ispirato il tuo cammino di autore?
Sono moltissimi, ed è difficile stabilire chi mi abbia influenzato più di altri. Forse Joe Sacco e Andrea Pazienza sono i riferimenti più evidenti per quanto riguarda l’illustrazione, mentre per la fotografia credo si possa risalire ai maestri del fotogiornalismo italiano, come Paolo Pellegrin, ad esempio, ma anche ad autori come Diane Arbus, da cui ho mutuato un certo interesse per le marginalità. Se poi penso alla mia formazione intellettuale, al di là della dimensione tecnica o estetica, non posso fare a meno di ritornare a personaggi come Ryszard Kapuściński, Pier Paolo Pasolini, Albert Camus, Emil Cioran, che hanno enormemente contribuito a definire quello che oggi è il mio punto di vista… il mio modo di vedere le cose.
– Come definiresti il tuo stile fotografico?
Quando in fotografia si inizia a parlare di stile significa che qualcosa non quadra. All’occhio salta subito l’utilizzo del grandangolo e le sue prospettive accelerate, ma per me tutto ciò non riguarda lo stile. Più semplicemente, il grandangolo mi costringe a una contiguità coi soggetti che prima di definire una maniera impone una relazione, ed è questa la cosa importante. La fotografia mi consente di cogliere un pezzo di realtà, di entrare in contatto con le cose, di vederle da una prospettiva diversa da quella che assume lo sguardo quando non è armato di un dispositivo capace di “congelare” le immagini. Per questa ragione alla dimensione stilistica preferisco la dimensione documentale, dove prima dell’autore viene la realtà che intende mostrare. Chissenefrega di Mirko Orlando… stiamo parlando di migranti!
– So che sei anche un docente oltre che fotografo, illustratore e giornalista. Chi è davvero Mirko Orlando, cosa sogna per il suo futuro e che progetti ha per la sua professione?
L’identità è una cosa complessa, che non puoi definire facendo riferimento a un mestiere, un linguaggio, o un certo modo di vedere le cose. L’identità è un processo, un continuo divenire e nonostante i continui cambiamenti diciamo, senza paura di contraddirci, che siamo sempre noi stessi. Se non sono il mio lavoro, la mia idea del momento, il mio status sociale, chi sono io? Potremmo discuterne per ore. Volendo semplificare, posso soltanto dire che insegnare, fotografare, scrivere o disegnare non fa alcuna differenza quando il tuo obiettivo è quello di capire, e magari tentare di spiegare, la realtà del tuo tempo. Per me sono tutte facce della stessa medaglia per cui sogno di continuare a fare ciò che già sto facendo senza pormi alcun vincolo.
– Prima di “Paradiso Italia” ti eri già occupato dei fenomeni di marginalità sociale con diversi reportage apparsi su riviste importanti e con la pubblicazione del libro “Il volto (e la voce) della strada”. Da cosa nasce questa tua scelta forte, e sicuramente difficile da perseguire, di documentare l’esistenza di chi è più sfortunato?
Forse c’è qualcosa che mi porta a identificarmi con queste persone, un vissuto non ancora del tutto elaborato… non saprei dire. Fatto sta che col tempo, attorno a questo interesse, ho costruito un intero modo di vedere il mondo. Per me la marginalità riproduce ciò che la coscienza collettiva rimuove, e pertanto rappresenta un luogo privilegiato da cui vedere le cose. Come l’inconscio dice qualcosa della coscienza che lo oblia, così la marginalità dice qualcosa del mondo che la rigetta.
– Dopo il tuo reportage sull’immigrazione “Paradiso Italia”, sei più tornato nei luoghi in cui hai documentato la vita dei migranti come l’Ex Moi a di Torino o la baraccopoli nella periferia di Ventimiglia? Che situazione hai trovato?
All’Ex Moi è in corso un progetto di reinserimento che ancora dobbiamo vedere, in concreto, a cosa porterà. Ventimiglia resta ciò che è sempre stata: una terra di passaggio dove si sgombera e si riallestisce un campo in continuazione, mentre a Borgo Mezzanone la situazione sta lentamente precipitando. L’ultimo incidente, un incendio, è costato la vita ad un ragazzo gambiano di 26 anni. Intanto il Ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha autorizzato le procedure di sgombero senza preoccuparsi di definire alcuna strategia, con il solo risultato che se davvero l’area verrà totalmente bonificata, i migranti si riverseranno in massa a Foggia e nei paesi limitrofi. Al di là delle proprie convinzioni ideologiche non è questo il modo di gestire le cose, ed è proprio nell’ostentare un’arrogante incapacità che si palesa l’inadeguatezza di questo Governo.
– C’è una fotografia presente nel tuo lavoro “Paradiso Italia” a cui tieni particolarmente? Ci racconti in che situazione è stata scattata, e che storia racchiude?
Le fotografie che più mi stanno a cuore sono quelle che non ho scattato, perché non sempre puoi fotografare senza ledere la dignità altrui. Sia chiaro che non mi riferisco soltanto a quel genere di scatti, patetici, che tante volte vengono prodotti, ma più che altro a un certo modo di stare con le persone. La macchina fotografica, oltre a documentare, è un oggetto che interviene nelle relazioni umane, e talvolta è necessario deporlo per capire davvero cosa ti accade intorno. Un buon reporter non è soltanto colui che sa quando scattare, ma anche colui che capisce quando è necessario smettere di farlo.
Pubblicato su Ukizero.