Kramp, della scrittrice cilena María José Ferrada, per il Ministero della Cultura del Cile è il miglior romanzo dell’anno. È possibile leggerlo nella bella traduzione italiana pubblicata dall’editore Edicola Ediciones (Ortona-Santiago). Il merito di questo editore, che da pochi anni opera a cavallo tra i due mondi (si autodefiniscono garibaldini,  credo perché è anche eroico il loro progetto), è di portare al pubblico italiano una letteratura contemporanea cilena di pregio che rischierebbe di restare forse per sempre sconosciuta.

Kramp è l’ultimo dei libri di Edicola Ed. che ho letto e, come gli altri, sembra appartenere ad una ben definita famiglia di nuovi narratori di razza, trentenni, che producono opere brevi, scritte perfettamente, poetiche, ironiche e drammatiche al contempo. È ben riconoscibile la koinè latino-americana di questa letteratura, densa di quell’atmosfera sospesa del “realismo magico” che ha avuto molti padri (e madri) nobili in tutto il continente dal secolo scorso: superfluo citare tutti i maggiori. Romanzi che inseriscono nella realtà quotidiana la memoria e la fantasia onirica, il comico e il tragico.

Kramp ci racconta la storia di D, papà rappresentante che smercia articoli di ferramenta in tutto il Cile, e di M, la piccola figlia settenne, che marina la scuola per aiutarlo a incrementare le vendite grazie alla sua innocente presenza che induce alla benevolenza i clienti. Il mondo di D e M appartiene a quella comune sottocultura dei commessi viaggiatori, fatta di alberghi, trattorie, amici di pari categoria, aneddoti e balle spaziali. Poi c’è la fantasia complice del papà e della figlia che, nella loro pedagogia alternativa, amano discorrere dell’Universo, della teoria della relatività e delle stelle che un Grande Falegname ha incastonato come viti d’acciaio nel firmamento. Ma non è tutto, perché M ha una mamma semi-assente a cui è volata via dal corpo una parte di sé. D e la mamma di M si sono incontrati il 13 novembre del 1973, a due mesi dal golpe militare che ha piombato in un limbo tragico tutta la nazione, mai citato, ma incombente sulla vita della mamma. E poi c’è E, che è un cineoperatore e un fotografo, e le due vite hanno qualcosa che le accomuna. E è una specie di “acchiappafantasmi”, dice a M, e li cerca in giro per tutto il paese; a volte li scova quando, al posto del loro lenzuolo bianco con due buchi, non resta altro che qualche osso sotterrato, e li vuole fotografare per documentare tutto prima che diventino polvere, fino a quando verrà scoperto.

È in questo modo che il passato, la memoria, il dramma, irrompono nella levità del racconto che, da quella  apparente semplicità scaturita dalla mente ingenua della bambina, scava nelle profondità dell’anima di tutto un popolo che deve continuamente fare i conti con la propria storia dolorosa, e finisce per intaccare anche le universali corde emozionali di noi lettori lontani.

Pubblicato sul blog di Paolo Cuniberti.