Il “fantastico” è genere letterario, visione del mondo, chiave di lettura trasversale, possibilità di generare immaginario che si dimostra capace di gettare ponti non solo tra livelli della realtà e del pensiero, ma anche tra culture diverse. Ne abbiamo parlato con Livio Santoro in occasione della pubblicazione della sua seconda raccolta di racconti fantastici: Commedie del vespero e della notte.

Parliamo di letteratura fantastica. Cos’è il fantastico? Ha senso distinguere questo genere da altre forme di finzione e da altre pratiche d’invenzione?

Secondo Blas Matamoro no. Lui sostiene che tutta la letteratura è fantastica, perché la fantasia è una categoria comune a tutti gli oggetti letterari. Scrive che “letteratura fantastica” è un pleonasmo, come lo sarebbe “letteratura letteraria”. Mi sembra una riflessione non troppo seria né troppo faceta che segue alcuni spunti parodici di Borges, quando per esempio in Tlön la metafisica viene associata alla letteratura fantastica, o quando in Utopia di un uomo che è stanco vengono citati I viaggi di Gulliver e la Summa Theologica, entrambi come racconti fantastici. Ecco, credo che il punto stia esattamente qui, e il fantastico secondo me è proprio questa proposta inclusiva. Che si tratti di “meraviglioso”, “weird”, “strano”, “sconcertante” o di altre coniugazioni del fantastico, c’è sempre un elemento di fondo: l’inclusione di ipotesi non verificate di realtà nel novero delle sue possibilità, in una forma, o se vogliamo in un codice, coerente e comprensibile. Quindi in questo senso il fantastico è un genere sovversivo, perché includendo ovviamente sovverte, e la verificabilità non è un suo problema.

Lo scrittore e critico David Roas identifica nel senso di paura uno degli elementi fondamentali del genere fantastico. Per te cos’è la paura e qual è il suo ruolo nell’immaginazione?

Sono d’accordo, la paura è spesso determinante nel fantastico, ma non sono convinto che sia un elemento sempre necessario affinché si possa parlare di fantastico. Roas sostiene anche che la paura cambia nel tempo, e racconta dei suoi studenti che oggi ridono guardando Nosferatu, che è un film del 1922. Quell’omino pelato con la gobba che si muove un po’ a scatti risulta buffo dopo cent’anni. Quindi la paura di ieri non è quella di oggi, ma si adatta al divenire della società e dunque è sempre attuale nella sua dimensione “assoluta”, prima di prendere forma. In sostanza c’è sempre (per fortuna, altrimenti sai che noia). In questo senso credo che la paura, quando prende corpo nel fantastico, non possa essere soltanto uno scopo da perseguire con la narrazione tramite le categorie che si adattano al dato momento storico-sociale, deve necessariamente anche precedere il racconto. Questo per dire che non deve essere considerata come un ingrediente per la corretta procedura da seguire in una ricetta letteraria ad uso dello sgomento di chi legge. Piuttosto deve essere una condizione assoluta, una condizione necessaria e preesistente affinché si possa cucinare, sedersi a tavola, mangiare e la mattina dopo andare in bagno.

 

In Italia tendiamo a rappresentarci la letteratura latinoamericana come in larga parte riconducibile alle categorie del fantastico, del meraviglioso, del realismo magico. Perché e come si è definita questa rappresentazione, secondo te?

In genere trovo scomodo già parlare di “letteratura latinoamericana” come di un ambiente omogeneo. E ogni volta che lo faccio, e che dico “letteratura latinoamericana”, mi rendo conto che non dico mai “letteratura europea” o “letteratura asiatica”, per esempio. Certo, c’è la questione della lingua comune, dell’uniformità della storia postcolombiana etc. Però al di là del fatto che le tradizioni nazionali dei vari Stati latinoamericani sono molto diverse tra loro, anche all’interno delle singole tradizioni nazionali ci sono proposte molto dissimili. Nel Novecento argentino per esempio abbiamo Borges, Bioy Casares e Cortazár, ma anche Arlt, Walsh e Saer. Una cosa che mi sento di condividere al riguardo la dice Beatriz Sarlo, proprio parlando di Saer: dice più o meno che negli anni del boom e di García Márquez la ricezione del mondo letterario latinoamericano era appiattita sul modello del “realismo magico”. E dice che un autore come Saer ne ha sofferto parecchio perché non conforme, e fu lasciato in secondo piano da un mondo editoriale che puntava tutto su Cortazár e García Márquez. Sappiamo che in questa vicenda entrano in gioco le aspettative della ricezione europea. In tal senso possiamo forse ragionare sul piano della geopolitica e del commercio: anche dopo centinaia di anni dalla Conquista, in Europa e non solo abbiamo continuato e talvolta continuiamo a figurarci l’Eldorado, l’incanto della selva, i tesori di gemme e i metalli preziosi… e continuiamo a voler vedere e vendere questa menzogna. Però c’è anche da dire che per fortuna, almeno così mi sembra, questo modo unitario di rappresentare la letteratura del mondo latinoamericano stia svanendo.

Si sentono fortemente nel tuo lavoro influenze di voci e immaginari provenienti dall’America latina. Quali sono i tuoi autori di riferimento e perché lo sono diventati? Trovi ci sia o ci sia stato un dialogo significativo, in questo senso, tra Italia e paesi latinoamericani?

Il primo autore che ho letto “seriamente” è stato Borges. La lettura de La casa di Asterione generò in me la prima grande vera emozione letteraria, mi fece vedere la letteratura sotto una nuova luce. Devo moltissimo a quel racconto. Ci sono poi sicuramente dei libri di altri autori latinoamericani che, ne sono consapevole, mi hanno offerto spunti impagabili, per esempio Favola Selvaggia di César Vallejo (peruviano), o Il vento distante di José Emilio Pacheco (messicano). O i racconti di Quiroga (uruguaiano). Questo per restare in America latina, come mi chiedi. Però nel mio piccolo attingo molto pure da tanti atri contesti, anche se inevitabilmente quello latinoamericano è per me il più familiare, diciamo per “questioni professionali”. Credo però che la maggiore influenza che traggo da questo ampissimo contesto riguardi la forma: mi sento molto a mio agio nella narrativa brevissima, che soprattutto in Argentina ha trovato grande spazio, senza rimanere schiacciata dal peso del romanzo. Ma è vero che anche in Italia ci sono e ci sono stati grandi autori che si sono cimentati in questa forma, pensiamo a Manganelli o Wilcock, che era argentino ma scriveva in italiano, e che rappresenta dunque in maniera esemplare il rapporto vivo tra noi e loro.

Molti appassionati hanno evidenziato una certa diffidenza nei confronti del fantastico. A cosa credi che sia dovuta tale ritrosia a riconoscere lo spessore del fantastico e il suo posto nella letteratura contemporanea?

Di certo, negli ultimi tempi, diciamo forse negli ultimi venti-trent’anni, la produzione editoriale italiana ha indugiato un bel po’ su un facile realismo, reiterando talvolta anche con manierismo un racconto a mio parere non sempre brillante sulle storie di vissuto familiare, sul rapporto figli-genitori, sull’autofiction, sugli struggimenti dell’individuo e sulle disfunzionalità che ci si trova a vivere nella società contemporanea. Narrazione di ispirazione borghese e autoriferita con cui indentificarsi facilmente, molto spesso. E che soddisfa senza troppi orpelli le esigenze di un certo tipo di pubblico un po’ querulo avvezzo al dramma televisivo, intrappolato nella parcellizzazione individualista dell’esistenza o al massimo nelle spire del familismo. Adesso penso che le cose stiano cambiando. Non che il realismo vada accantonato, anzi. Non voglio dire questo. Tuttavia credo che la letteratura, oggi, debba (anche se in realtà la letteratura non “deve”, mai) primariamente dedicarsi a un altro scopo: perseguire il sogno o, se vogliamo, l’incubo; traslarci, portarci altrove in contesti sconosciuti, mettere in questione lo spazio e il tempo e lasciare un po’ da parte le nostre minime esperienze soggettive, aiutarci a ragionare in modi diversi, a pensare non soltanto a noi stessi in quanto individui nel nostro stesso contesto di vita quotidiana. Per identificarmi con qualcuno e sentire storie di corna o di vita familiare preferisco scendere in strada, mettermi in fila alla posta, non apro un libro. Però è anche vero che raccontata così questa storia del realismo è una lettura parziale, perché la letteratura italiana ha sempre avuto uno strettissimo legame con il fantastico e con l’altrove. Anzi, credo che possiamo sostenere che la letteratura italiana è storicamente prima di tutto fantastica, a partire dalla Divina commedia, passando per Ariosto e Basile, per arrivare fino al Novecento, che in tal senso dalle nostre parti è stato un secolo straordinario: penso a Landolfi, Calvino, Masino, Morselli, Buzzati etc. E oggi abbiamo Michele Mari, che prosegue con lo stesso spessore quella tradizione, e a seguire tanti altri autori che stanno scrivendo libri davvero interessanti, come per esempio L’ora del mondo (Meschiari), La custodia dei cieli profondi (Riba) e Novena (Marrucci). Fortunatamente in Italia siamo letteralmente circondati da ottima letteratura di stampo fantastico. Quindi trovo che questa ritrosia di cui parli persista forse nei grandi gruppi editoriali che puntano ancora in grande tiratura sulle storie di famiglia e sugli struggimenti dell’individuo con cui ultimamente si vincono premi prestigiosi. Credo che il discorso non riguardi solo la letteratura ma anche l’ambito del commercio.

Cosa nel fantastico continua, nonostante tutto, a esercitare questo fascino irresistibile? Che ci sia un rapporto particolare tra la paura e la libertà, che spostando lo sguardo si liberino energie altrimenti represse?

Credo che il fantastico susciti fascino perché banalmente ci precipita nel vuoto, perché ci porta davvero altrove, con tutto il portato di interrogazioni sull’ignoto e di apertura di spazi di libertà che ne consegue. Cosa che è vera sempre, ma in questo periodo lo è forse ancora di più. Non mi riferisco alla pandemia, alle quarantene e ai lockdown che ci hanno imposto di restare in casa, e che ultimamente vengono spesso evocati nel ruolo di causa prima. Mi riferisco invece al dibattito che tematizza in un nuovo modo critico il nostro rapporto con la tecnica, al recupero delle parole e dei discorsi “altri”, non egemoni (indigenismo, femminismo, queer, magismo, reincanto del mondo, ambientalismo etc.). Nell’ambito del pensiero, ma non ancora compiutamente in quello della pratica e dell’amministrazione politica, tutte queste tendenze hanno ormai abbattuto la solidità dell’impianto moderno-occidentale-individualista-maschilista-cisgender, che a mio parere era un impianto fortemente votato al realismo perché ancorato a un progetto politico-economico concreto di società espansiva, al dominio della tecnica e in parte anche allo scientismo acritico. Adesso, credo, questo impianto moderno-occidentale-etc. cerca di resistere camuffandosi nella retorica dell’oggettività e della necessità dei dati, retorica che radicalizza il discorso tramite un mascheramento astratto di quello stesso progetto politico-economico di sopra, in cui l’indeterminatezza (falsa) del cloud e le procedure della data science prendono il posto dell’etica burocratica, per dirla brutalmente. Ecco, al di là del fatto che la letteratura italiana non ha mai smesso di essere fantastica, credo che il fantastico resista e anzi stia trovando nuova linfa proprio per questo motivo. E credo che tra Paola Masino e Timothy Morton, tra Tommaso Landolfi e Donna Haraway, ci siano molti più punti di contatto di quanti ne abbiamo visti finora.