Qual è il terreno comune alla base della reciproca comprensione? Cosa ci rende riconoscibili? Cosa ci rende accettabili? In definitiva, qual è il confine fra l’appartenenza e l’estraneità? Queste sono alcune delle domande che ci spinge a porci Claudia Apablaza, già autrice per Edicola di Tutti pensano che sia un fachiro, con il suo nuovo libro Storia della mia lingua. Claudia si è appena trasferita in Spagna dal Cile insieme al marito e alla figlia. Mentre la donna si adatta al nuovo spazio, la sua bocca si adatta a sua volta all’apparecchio per i denti che le viene prescritto dall’odontoiatra: le costrizioni e le soluzioni della lingua, tra langue parole, tra i denti e il palato, la sua genealogia e la sua eredità, diventano centro e metafora dell’esperienza di sradicamento raccontata nel nuovo libro della scrittrice cilena, costruito come una costellazione di testi-satellite attorno al pianeta-lingua: non solo, questa, organo fisico di deglutizione e masticazione, ma anche simbolo e strumento di libertà espressiva e potenziale incomunicabilità. Abbiamo intervistato per voi l’autrice, che ci ha parlato di colonizzazione e straniamento, occupazione e libertà, corpo ed espressione. Di limiti e libertà.

 

Puoi parlarci della tua fascinazione per la lingua? Cosa la distingue da altre parti del corpo che pure rendono possibile l’espressione, come le mani?
 Mi interessano anche altre parti del corpo, ma in questo caso particolare la fascinazione per la lingua è legata alla circostanza di un trattamento odontoiatrico che sto seguendo da alcuni anni e che mi ha portato a concentrarmi su quella parte del mio corpo e a indagarla. A pensare sia al suo lato simbolico che a quello materiale. Ho iniziato a esplorare come la lingua influenzi tutto nella nostra vita quotidiana, dal parlare al mangiare, la scrittura, i dialoghi con mia figlia di sei anni, la mia esperienza di migrante, il sesso, tra gli altri. Inoltre, e soprattutto, mi sono interrogata su come la lingua sia un luogo di resistenza per un soggetto migrante.
 
Nel libro, la tua protagonista si sente ripetere spesso, da esponenti del mondo dell’editoria, che non scrive romanzi, almeno non nel modo in cui ci si aspetta da lei, e che dovrebbe adottare forme più convenzionali. Perché resti allora orientata, insieme alla tua protagonista, verso una forma ibrida, che non si lascia incasellare?
 L’idea del romanzo è un fantasma che perseguita tutti noi scrittrici e scrittori e che ha diverse facce. Da un lato, c’è un’esigenza del mercato editoriale, per cui il romanzo diventa una sorta di biglietto d’ingresso ai grandi gruppi editoriali, che indubbiamente seduce molti scrittori per la possibilità economica e di diffusione che questo comporta per i loro libri. Il che è alla base, per alcuni, della necessità di raggiungere la perfezione nel genere. Inoltre, evidentemente per alcuni c’è la sfida intellettuale di costruire un romanzo secondo le regole dettate dal genere e, bè, ognuno avrà le sue ragioni per conformarsi o meno a certi dettami. Non voglio entrare nella discussione su quando sia nato il romanzo moderno e perché, ma penso che tutta la letteratura, quella per cui vale la pena, stia finalmente mettendo in discussione il mito di quello che un tempo era “il grande romanzo”, europeo, latinoamericano o altro. Il mio personaggio dialoga con queste idee sulla scrittura e con queste forme rigide, cercando di sovvertirle.
 
Alcuni hanno definito la tua un’opera di autofiction, una forma ibrida tra realtà e finzione, esperienze personali e condivise. Ti ritrovi in questa definizione? Qual è per te il ponte tra esperienze individuali e universali?
 Tutte le definizioni del mio testo sono benvenute, io tendo a pensarlo principalmente come un’esperienza di scrittura sulla mia lingua. Quanto al ponte tra esperienze individuali e universali, penso che quando l’io di cui si parla è un noi, quando l’esperienza che si sta narrando si presume condivisa con altri, si sta già calpestando il terreno dell’universale, si sta lasciando l’io reale per entrare nell’io fittizio, che spero sia sempre un noi, un “altro”.
 
La protagonista dichiara a un certo punto che sta diventando colonizzatrice di se stessa. Cosa definisce per te il colonialismo, a livello sociale e psicologico, oggi che viviamo in un mondo spesso definito post-coloniale?
 Il colonialismo è un esercizio di dominio, sfruttamento e controllo di alcuni soggetti o gruppi su altri che considerano inferiori. È stabilire un’egemonia sugli altri. Questo avviene a diversi livelli, che li si consideri inferiori psicologicamente, economicamente, socialmente, culturalmente, linguisticamente o altro. Si basa su questa idea di inferiorità e sul conseguente esercizio di paternalismo e potere che porta alla cancellazione di alcuni tratti identitari dell’altro. Tutto questo avviene soprattutto per trarne un vantaggio economico. Questa è la situazione che abbiamo vissuto storicamente come latinoamericani nei confronti dell’Europa e degli Stati Uniti.
 
Gli effetti del colonialismo si vedono anche nello spaesamento linguistico vissuto dalla tua protagonista: lo spagnolo è una lingua parlata da 600 milioni di persone e allo stesso tempo estremamente diversa da una costa all’altra, tra un confine e l’altro. Cosa significa navigare su questa linea, tra unione e distanziamento?
Questo confine è il luogo su cui si fonda questo libro. La frontiera è un luogo complesso, perché è uno spazio di pura fragilità, un luogo di passaggio tremendamente contraddittorio. È il luogo della domanda. Dico che è uno spazio contraddittorio perché da un lato è un luogo di apertura, di transito da un posto a un altro, di fuga, di libertà da un luogo che ti opprime, ma allo stesso tempo lì si possono perdere tutte le forme di identità, si può essere privati di qualsiasi cosa e, ancora una volta, essere nominati in maniera autoritaria da altri.

Nel libro parli, tra l’altro, di libertà espressiva: perché è così difficile da raggiungere? Cosa significherebbe per te sentirti libera in questo senso?
Poiché non aspiro a un luogo utopico e individualista in cui la scrittura altrui viene colonizzata e cancellata per imporre la mia, più che a una libertà completa penso piuttosto a un dialogo e a un rispetto per le diverse culture, per le loro caratteristiche, i loro segni, la loro ricchezza e la loro storia. 
 
Nel tuo libro, l’esperienza della migrazione mostra la propria complessità: non è certo solo uno spostamento fisico da un luogo a un altro. Cosa significa per te sentirsi a casa? È possibile mettere nuove radici?
Ho sempre migrato e in ognuna di queste migrazioni ho messo radici. Me ne accorgo quando torno da qualche parte e vedo che qualcosa è rimasto, un seme che ritrovo nei nuovi viaggi in vecchi luoghi. Spazi, persone e affetti.