La letteratura ha una speciale capacità trasformativa, ancor più profonda e significativa dell’idea di creazione pura. Non origina, infatti, nulla dal nulla – niente e nessuno può farlo – ma scompone e ricompone, riutilizza e ricicla, disarticola e osserva alla luce del sole i meccanismi oscuri delle cose, per poi rimetterli insieme, contaminare, spostare gli equilibri, scombinare le carte. La letteratura, grazie al formidabile strumento che è il linguaggio, ci permette di reimmaginare il mondo. Questa facoltà mutante, questa tensione all’esistenza, è proprio l’elastico che innesca la narrazione di Alfredo Zucchi, in libreria con Demolition Job. Lettere all’usurpatore. “Materiale onirico come traccia documentale, come appiglio e traccia del reale da cui prende avvio l’invenzione letteraria”: così Zucchi ha descritto – in un suo contributo che è possibile ascoltare sul nostro canale YouTube – la materia costitutiva della sua narrazione, le componenti fondamentali del suo immaginario, reattive l’una all’altra come elementi chimici.  Nell’intervista che potrete leggere qui, ci racconta del suo esperimento con il linguaggio, il pensiero e la letteratura.

 

Qual è il filo conduttore dei racconti? Che forma ha il tuo libro ai tuoi occhi?
 Demolition Job ha la forma della rincorsa a una cosa che sfugge – sfuggendo tira, trascina tutto con sé. In questa rincorsa, che non dipende da me ma dalla cosa che sfugge, ho cercato di mettere dei paletti, cioè di esercitare una specie di autorità autoriale sul testo. Su un aspetto in particolare: il movimento, dunque il senso del movimento, non doveva limitarsi a mimare le inerzie del negativo (frammentazione, atomizzazione, disgregazione), ma provare a fare l’opposto: dare vita a un’utopia della costruzione a partire dal punto di disfacimento. È qui che ho detto “no” alla cosa che sfugge e mi sono messo a correrle dietro anch’io.
 
Citi, con disinvoltura e giocosamente, diversi filosofi. Che ruolo ha la storia della filosofia nel tuo immaginario?
 Concordo con il tuo “giocosamente” nel senso in cui Borges parla di “curioso pericolo”: un gioco che sembra un innocuo esercizio e invece conduce chi legge, se il testo è costruito come si deve, cioè come una macchina per produrre effetti, in una strettoia che lo costringe a domandarsi se davvero è accaduto ciò che teme sia accaduto: le regole si sono ribaltate, l’ordine è capovolto, gli oggetti sono in rivolta – contro il lettore stesso. È un’infamia a cui bisogna dare risposta mettendoci la faccia.
In Demolition Job ho usato (con disinvoltura nel senso dell’appropriazione indebita) tre maestri dell’imminenza: Wittgenstein, Nietzsche e Lacan. Mi servivano alcune delle loro formule per accendere la narrazione. Più che la storia della filosofia, mi interessa la storia: la finitezza, la parzialità e l’ideologia, il qui e ora di chi si sforza di elaborare teoria, cioè posizioni e idee che ambiscono all’universale. La contraddizione tra questi termini (finitezza e universalità) è bruciante; i tre nomi di cui sopra sono riusciti a fare di questa contraddizione la posizione stessa da cui si prende la parola.
 
La tua scrittura sembra adottare le logiche del sogno e allo stesso tempo funzionare come un gioco intellettuale. Cosa significa scrivere per te?
 Le logiche del sogno, in effetti, sono un gioco intellettuale, se non che le regole del gioco hanno delle falle, dei punti ciechi, dei vuoti. Ai miei occhi, un po’ per scelta, un po’ mio malgrado, la scrittura ha a che vedere unicamente con questi vuoti. Per questo è un’attività malsana, se non nel punto o nel momento in cui, dall’angolo cieco dello specchio, sembra emergere qualcos’altro, la promessa di un rinnovato orizzonte di senso.
 
E come nei sogni, il continuum della realtà e della sua percezione si spezza e ricombina. Non a caso, un tema centrale è quello del linguaggio. Puoi parlarci della tua sperimentazione letteraria? 
 Spezzare e ricombinare: sono due azioni che descrivono bene le dinamiche portanti del testo. Mi viene da aggiungere che ciò che si spezza e si ricombina non è solo il continuum del reale, ma anche le storie dei soggetti, dei personaggi. Per ogni spezzettamento, ognuno di loro perde parte del proprio passato: il presente diventa confuso, il futuro una strada interrotta. Lo sforzo di ricombinare, in questo senso, è a carico loro, nella misura in cui ambiscono a vivere nel reale all’interno di un orizzonte di senso. Devono, allora, mettere in atto una riappropriazione, una riscrittura della propria storia. 
Una cosa analoga avviene dal punto di vista della composizione dell’intreccio: ogni frammento staccato via e ricombinato altera il disegno generale delle cose. Questi due elementi della narrazione (i personaggi da un lato, il tessuto del testo nei suoi procedimenti compositivi), in stato di sommossa simbolica, ambiscono ad affrontare le due autorità definitive, le figure che hanno in mano il filo della storia e del senso della storia: il narratore e la morte. Il mio tentativo di elaborazione letteraria riguarda la messa a fuoco dell’intenzione e degli strumenti da utilizzare per mettere in scena questo scontro.

Sdoppiamento e ribaltamento: che rapporto c’è tra loro nel tuo libro?
 Non ho mai pensato alla relazione tra questi due elementi, nonostante siano molto presenti nei miei testi – o forse proprio per questo. Forse riguardano il primissimo movimento dello scarto, della differenziazione (sdoppiamento), e la promessa del ritorno (ribaltamento) diversi eppure identici nel cuore del conflitto. Se è così, Demolition Job è un continuo parlarsi e scontrarsi di queste due voci. Nessuna delle due l’ha vinta, per fortuna.
 
Non da ultimo, emerge anche una componente sensuale nel tuo immaginario. Corpo e sensi esplorati e stimolati attraverso la parola: quanto è delicato l’equilibrio tra pensiero verbale e mondo sensibile?
 Per quanto mi sforzi di ripetere (a me stesso), che “il mondo apparente è l’unico mondo vero” (Nietzsche), la dimensione della parola, in Demolition Job, ha una specificità forte, è come se ambisse a precedere i soggetti, i corpi e gli oggetti. Questa posizione è discutibile, e certamente va circoscritta al testo letterario. Allo stesso tempo, è anche vero che produce un effetto: la parola stimola un movimento, come un’accensione del desiderio. Nel testo si parla di “febbre del significante” che seduce i personaggi “a continuare a esistere”. I corpi però hanno dei limiti oltre i quali si stirano, si estenuano o si sgretolano: in questo senso, devono anche difendersi dalla dimensione della parola. Ma difendersi non vuol dire limitarsi a lasciarsi sedurre dall’ipnosi del movimento della parola, né tantomeno rifiutarla in toto. Vuol dire, credo, agire in modo trasformativo, provare a mettere in pratica, consapevoli (i corpi, i soggetti) che il risultato non sarà mai precisamente all’altezza del progetto.
 
Che posto hanno nel tuo lavoro l’ironia e l’umorismo? Che uso desideri farne?
 Occupano posti diversi, entrambi privilegiati: l’umorismo è la via dell’inconscio, sta sempre in mezzo; l’ironia è la voce del dubbio, di solito vuole mettersi sopra (a volte umilmente sotto i piedi). Ogni tanto si sovrappongono, a quel punto le cose si fanno interessanti – le parole stesse sembrano andare in ebollizione, la pressione aumenta. Si tratta di uno stato della materia che ha a che vedere con l’elaborazione letteraria, e che cerco attivamente di riprodurre.
 
Ci sono autori e/o opere che hanno ispirato o guidato la tua scrittura? Che ti hanno aiutato a tracciare un percorso letterario personale?
 Ce ne sono molti. In questo libro ci sono delle frasi di autori che ho usato come leitmotiv: questi autori sono diventati voci nel libro, o hanno prestato (indebitamente) la voce ai personaggi, al narratore, alla morte (la morte è uno dei personaggi di questo libro, per quanto pretenda, di solito, di essere super partes e fuori dai giochi: non è propriamente vero). Mi viene solo da dire che, con Demolition Job, mi sembra di essermi liberato da Borges. Questa impressione, per quanto illusoria, mi produce sollievo.