In vista della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, abbiamo intervistato Eugenia Prado Bassi, autrice di (d)istruzioni d’uso per una macchina da cucire, una potente trama di testi, cucita insieme con i corpi, i mestieri, le pratiche di generazioni di donne, in un movimento che va dal silenzio e dal segreto allo spazio pubblico e alla parola pubblica.

Cosa lega insieme le pratiche della scrittura, della tessitura e dell’aborto, che si intrecciano nel tuo racconto delle donne?
(d)istruzioni d’uso per una macchina da cucire è un artefatto politico. Così è concepito: come uno sciame o un ordito di immagini e testi, emozioni, speranze, desideri, mentre occupazioni, strumenti e voci si dispiegano intorno ai corpi delle donne, sottomesse da secoli alla grande macchina produttiva e commerciale, costrette a doversi conquistare gli spazi della parola. Ma se solo nel secolo scorso le donne hanno cominciato ad avere nel mondo spazi visibili di pensiero e scrittura, gli stessi erano però sempre esistiti nei mondi più intimi degli epistolari e dei diari.
Queste aperture del mio libro al mondo della scrittura, delle narrazioni, al mondo del cucito, del ricamo e a quello dei femminismi, hanno aperto a loro volta spazi di memoria familiare. Ho visto come uomini e donne di età diverse si sono commossi nel maneggiarlo: come per magia, ogni volta appare una storia legata alla cura e alla fatica di quelle donne. Negli ultimi due decenni, i movimenti sociali e i desideri di emancipazione hanno cominciato a pulsare con forza e sono emerse così le storie familiari, soprattutto nelle donne, legate da un filo, presenti, alla storia delle loro nonne, madri, sorelle, zie, vicine di casa.
E così la produzione di testi si annoda, si attorciglia, si appunta attorno a questi corpi di donne, che scrivono sé stesse inscrivendo nella comunità le loro storie, rinunce, paure, i loro amori e le loro frustrazioni, ospitate in quel laboratorio di cucito che nel retro, nella parte nascosta, invisibile, diventa spazio regolatore delle loro volontà: è lì che decidono, infatti, cosa fare delle loro maternità e quando interrompere il concepimento di altri corpi destinati a essere divorati dalla grande macchina.
I testi del libro ruotano quindi proprio intorno al genere e ai suoi spazi. La scrittura e il cucito si somigliano: esiste in entrambi una possibilità di emancipazione – le parole e i ricami sono risorse, strumenti di libertà – ma anche di asservimento, se pensiamo all’esigenza di garantire elevatissime prestazioni nel più breve tempo e al minor costo possibile imposta dal mercato.
 
Ricostruisci una sorta di genealogia femminile, che sembra definirsi nella tensione tra sfruttamento e liberazione. Presenti così un soggetto collettivo femminile/femminista.
La scrittura di questo libro si concentra proprio su quel nodo, a volte tragico, che lega sfruttamento e liberazione. La macchina produttiva per queste sarte non è riducibile alla semplice realizzazione di capi d’abbigliamento, ma riguarda l’interazione tra le loro storie e il loro lavoro, lo sviluppo di idee e riflessioni sulle loro vite e di una coscienza di genere e di classe. Tutte insieme creano un tessuto che configura uno spazio di protezione e, allo stesso tempo, di emancipazione.

C’è poi una seconda tensione: corpo e macchina.
I corpi femminili sono da sempre luogo di sfruttamento: corpi-utero che ospitano le nuove generazioni, che valgono meno e sono meno remunerati, costretti per questo a sempre più ore di lavoro. È necessario sottrarre il corpo alla macchina, credo, perché questa possa essere usata a favore dell’emancipazione, senza lasciarsi travolgere da un lavoro incessante e che si moltiplica per ciascuno dei ruoli che ci troviamo ad assumere: la cura e l’educazione, il lavoro esterno, il lavoro domestico…

Cosa ti ha affascinato in prima istanza della macchina da cucire? Perché rappresenta un luogo, non solo simbolico, così importante nella narrazione del femminile?
Sono nata nel 1962, sono stata protagonista del boom degli elettrodomestici e dell’avvento di macchine di ogni tipo, che hanno invaso le nostre case. Avevo quattro anni quando la televisione è arrivata a casa mia. Quando ho studiato grafica all’Università, ancora non avevamo a disposizione i computer. Questi passaggi dall’analogico al digitale hanno segnato la mia vita. E aggiungo che mi sono sempre piaciute le macchine, i meccanismi, gli ingranaggi, amavo smontare tutto ciò che avevo davanti. Non ho mai smesso di stupirmi di come la tecnologia progredisca rapidamente, sostituendo e trasformando il lavoro umano. Prima cucire a mano una camicia richiedeva 10 ore di lavoro, oggi nello stesso tempo si può fare una quantità inimmaginabile di cose.
La macchina da cucire personale ha evocato i primi sogni di liberazione dal dominio degli uomini. Un lavoro finalmente retribuito era una grande promessa: la possibilità di guadagnare il proprio denaro e assicurarsi il sostentamento per sé e per i propri figli. E le macchine da cucire hanno portato anche altre novità, il lavoro al di fuori dell’ambiente domestico e la forte presenza della fabbrica, moltiplicando e ampliando gli spazi di complicità tra donne.  Non a caso, nel 2018, con il consolidarsi in Cile di un potente movimento femminista, una delle forme che ha preso il manifestare è stata proprio quella di riunirsi per ricamare e cucire nelle piazze e nei parchi: in quegli spazi si sono generate complicità, sorellanza, empatia, connessione.

In che rapporto sono il tuo impegno politico e il tuo lavoro culturale?
Il mio lavoro è politico. Il mio progetto di scrittura, che porto avanti e sviluppo da 35 anni, risponde alla sua epoca e al suo ordine simbolico maschile con una strategia narrativa che innesta nel linguaggio il disagio, la scomodità.
Sono un corpo connesso e la mia parola cerca di uscire dal confinamento con una retorica che nasce dall’oppressione e che incarna nella lettera l’esperienza di essere donna e di vivere sotto una politica avversa. La mia scrittura si inscrive così nel gesto della letteratura e della politica. Oscillo in uno scambio costante tra il mondo nella sua globalità e le mie parti più profonde.
Mi interessano i testi trans-generici, che producono mediazioni e nuove visioni e in cui fioriscono diversi media. La mia esperienza poetica nasce dai miei studi di disegno e dalla mia formazione grafica. Nasce dall’amore per la lettera, il suo gesto, la sua traccia. E mi interessano le rappresentazioni politico-militanti che destabilizzano l’ordine simbolico maschile. Cerco di dialogare con immaginari che si muovono attraverso la messa in discussione del canone, la dissoluzione del maschile e del femminile come rappresentazioni simboliche e materiali di un certo ordine culturale.