Secondo l’opinione corrente, Margarita Maldonado non può esistere. Maldonado è infatti una Selk’nam, fa parte cioè di una popolazione stabilitasi nella Terra del Fuoco 10mila anni fa e considerata estinta. Peccato che, invece, estinta non lo sia affatto. I suoi membri sono ben vivi e determinati a essere riconosciuti.
Maldonado, che attualmente vive in Argentina, è nota per il suo impegno per il riconoscimento del popolo Selk’nam e dei suoi diritti ed è tra le voci protagoniste di Noi, i Selk’nam. Storia di una resistenza di Carlos Reyes e Rodrigo Elgueta. L’abbiamo intervistata.

Com’è stato crescere come Selk’nam? Come si è formata la sua coscienza identitaria?
Sono cresciuta conoscendo la mia identità sin da quando avevo 7 anni. Raccoglievamo ciò di cui avevamo bisogno, seguendo il ritmo delle stagioni: uova in primavera, funghi in estate e in autunno, frutti di bosco come il calafate, la fragola, la mutilla ecc., frutti di mare tutto l’anno e carne di guanaco quando ce n’era, conducendo una vita assolutamente sana, giocando all’aria aperta. Fango, acqua e fiori erano i nostri giocattoli. Il nostro ranch, che mia madre chiamava con affetto “la sua piccola casina”, riceveva sempre la visita di altri Selk’nam, vestiti secondo la moda contemporanea, che si prendevano cura di noi in modo che mia madre potesse lavorare, e che si volevano molto bene.
La mia coscienza identitaria si è formata così quando ero molto giovane, ascoltando le storie di come il mio popolo nativo era stato deliberatamente sterminato. Sono arrivata a sentire il sangue caldo dei miei antenati scorrere nelle mie vene, facendomi battere fortissimo il cuore: un dolore lancinante e commovente, che ho deciso di trasformare in amore, non in vendetta, per riuscire a onorare le mie millenarie radici Selk’nam e a far sì che si sappia che il nostro popolo è vivo. E per lasciare in eredità alle generazioni future la consapevolezza che lo sviluppo di un essere umano deve avvenire senza odio, risentimento e vendetta.
 
Cosa rimane del patrimonio del popolo Selk’nam e come si rapporta alla sua mercificazione da parte della cultura di massa?
Stiamo parlando dei nostri territori, che per noi sono qualcosa di sacro, della nostra scienza e dei nostri saperi, della nostra spiritualità, della nostra vita quotidiana. Della nostra cultura, tradizioni e costumi, la nostra lingua. La mia eredità è la mia memoria storica e non ho intenzione di commercializzarla, perché questa memoria mi permette di riconoscere la mia identità, sociale, culturale, spirituale e anche politica. Siamo soggiogati da culture straniere e per sopravvivere e sostenerci abbiamo soltanto ciò che abbiamo ereditato. Per questo non lo chiamiamo patrimonio, ma eredità. E non la vendiamo, ma la trasmettiamo: io per esempio lo faccio attraverso le mie opere letterarie, ma anche attraverso laboratori didattici, di cesteria e di storia.
Siamo persone vive, forti di una grande ricchezza culturale che non vogliamo svendere. Piuttosto, vogliamo salvaguardare madre natura, i nostri saperi, l’equilibrio e l’armonia con la terra. E tutto questo è possibile perché trasmettiamo la nostra eredità e onoriamo i nostri antenati, le migliaia di generazioni che ci hanno preceduto e ci hanno lasciato un’idea di sviluppo sostenibile di cui rivendichiamo la proprietà intellettuale.


 
Cosa significa oggi appartenere a questa minoranza e quali sono le difficoltà e le sfide che deve affrontare?
Non ci consideriamo una minoranza, dal momento che oggi siamo in 500 a essere registrati nella nostra Comunità Indigena Rafaela Ishton, in un mondo che ci è ostile. Quanto agli ostacoli che dobbiamo affrontare, ne è un esempio la difficoltà che ho avuto per più di 30 anni a far riconoscere la mia credibilità come educatrice, dato che non ho una laurea in didattica e ho iniziato il mio lavoro nelle scuole solo come volontaria a fianco degli insegnanti. Da parte della gente comune c’è una forte resistenza a riconoscermi come Educatrice Ancestrale, come mi chiamano i miei fratelli e sorelle. La mia sfida è l’interculturalità di tutta l’istruzione universitaria, pubblica e privata, che dobbiamo presidiare e sviluppare, di cui dobbiamo essere i garanti. 
E io lavoro 24 ore su 24 ogni giorno per conservare e trasmettere la mia identità, per lasciare alle generazioni future l’eredità ricevuta a mia volta dalla mia bisnonna, da mia nonna e da mia madre, perché la nostra storia non muoia nell’oblio.