Scrittore e regista. Diego del Pozo si è laureato in Lettere e ha un Master in Letteratura all’Universidad Católica de Chile, attualmente svolge un Dottorato di Ricerca in Storia e Patrimonio Culturale presso l’Università di Helsinki, Finlandia. La traduzione è di Giusy Borrelli e Francesca Sperandeo, che ringraziamo. 

Coprifuoco, militari per strada con il compito di reprimere la rivolta, stazioni della metro e altre zone della città in fiamme, supermercati e farmacie saccheggiati, migliaia di persone in strada, inettitudine politica, violenza incontrollata, morti senza nome, spari che minacciano e spaventano chiunque.      

Come è possibile che in Cile, l’oasi dell’America Latina, oggi si viva una delle peggiori crisi politiche di tutta la regione?

Forse bisogna andare molto indietro nel tempo per poter rispondere a questa domanda, e probabilmente il presidente del Cile si sta chiedendo la stessa cosa. Del resto, è stato lui ad introdurre l’immagine dell’oasi. Il leader del Paese, colui che ci rappresenta. Se lui non ci comprende, allora la nostra democrazia ha fallito ancora una volta? 

Il modello economico (capitalismo selvaggio) instaurato con la dittatura di Pinochet – che il presidente, così come l’opposizione che prima era al governo hanno saputo amministrare perfettamente durante quasi 20 anni, nonostante gli indici internazionali indichino il contrario – è un fallimento totale.   

Il Cile è stato il primo Paese della regione ad entrare nell’OCSE, ma i numeri, quei numeri così evidenti, dicono la cosa opposta; ciò nonostante il Paese sa di cenere. Di tutto quel fumo indomabile, quello che si dissipa è una percentuale che è impossibile stabilire: al di là della crescita economica, della possibilità di accedere ai prodotti del mercato, al credito bancario, al di là delle auto nuove, dei televisori al plasma, e per finire con i cliché, dei successi sportivi, la percentuale che non è cambiata è stata quella della felicità.

Noi cileni, nonostante tutto, non siamo più felici. Al contrario, ci sentiamo più depressi e abbandonati che mai. Abbiamo iniziato a suicidarci. Oggi in Cile, le persone che per prime si tolgono la vita sono quelle che hanno visto di più: la terza età. Sembra che l’andare in pensione in Cile segni l’inizio del dolore e della sofferenza. Chi potrebbe crescere ottimista in questo scenario? Non bisogna dimenticare che in Cile il secondo gruppo con la percentuale maggiore di suicidi sono gli adolescenti. Spero che il presidente si stia chiedendo la stessa cosa.         

Siamo già da una settimana con coprifuoco e militari per le strade del Cile, da quando hanno avuto inizio le manifestazioni a Santiago lo scorso venerdì, a causa dell’aumento del costo del trasporto pubblico nella capitale. Oggi, oltre alla Región Metropolitana, praticamente l’intero Paese si trova in stato d’emergenza, ciò significa che i militari sono responsabili della sicurezza in ogni angolo della nazione, e la paura si diffonde come un flusso d’acqua fantasmagorico che nessuno vede, ma che tutti percepiscono, come l’acqua autentica che ormai non scorre più nella maggior parte dei fiumi del Paese.       

Una serie di dichiarazioni, al limite fra la presa in giro e l’indifferenza da parte del consiglio dei ministri, si sono aggiunte, come una sciocca provocazione, alla pressione sociale che si respirava durante il secondo anno di governo del secondo mandato del presidente Sebastián Piñera. Ciò che apparentemente era il riflesso di una democrazia solvibile, con l’alternarsi al potere fra la destra e la sinistra (Michelle Bachelet 2006-2010, Sebastián Piñera 2010-2014, Michelle Bachelet 2014-2018, Sebastián Piñera 2018 – ad oggi), oggi sembra ridicolo, evidenzia soltanto la mancanza di un piano politico e la lontananza dall’instaurazione di un progetto democratico.

Da un momento all’altro, il presidente stesso, che si vantava del miracolo economico cileno, e puntava il dito contro gli altri paesi, indicando le inadempienze di ognuno, è rimasto senza parole. E dopo aver denunciato gli insuccessi di Brasile, Venezuela, Argentina, Perù, Ecuador, e di tutto il resto del Cono sud, all’improvviso, senza il minimo sospetto, pochi giorni dopo non è più al comando di un Paese, ma sopravvive alla sua stessa impressione, mentre avverte sempre più i sintomi di stress, tremolio, instabilità mentale, stanchezza, incoerenza, mancanza di leadership e forse anche dolore.

L’opinione più diffusa, condivisa da entrambi gli schieramenti politici, è quella secondo cui il presidente si sente perso, non riesce ancora a capire cosa sia successo. I suoi consiglieri e ministri sono i primi responsabili di tutto questo. Forse persino più di lui, ma questo fa parte di una finzione impossibile. Abbiamo ormai voltato pagina e nessuno sa se nel prossimo capitolo Piñera sarà protagonista o solo personaggio secondario. Lui è l’unico che lo saprà, da solo nel suo angolo di incertezza, di dubbio, di sfiducia, di ingovernabilità.     

Il caos e la repressione, come se fossero stati tratti da un film di Hollywood, sono il pane quotidiano per noi, milioni di cileni, che viviamo questo momento con le atrocità della dittatura di Pinochet davanti agli occhi. I social network e, in generale, i mezzi di comunicazione, quell’interconnessione straordinaria che ci ha fatto sentire parte integrante del XXI secolo, oggi gioca a nostro sfavore e condivide centinaia di notizie che, reali o meno, diffondono soltanto panico, dandoci l’illusione di essere tutti connessi nonostante la reclusione obbligatoria nelle nostre case, impostaci del coprifuoco.

Bisogna ricordare che la gran parte dei mezzi di comunicazione in Cile è controllata da società affiliate al governo e, benché ci sia una buona dose di sensazionalismo, i media sembrano trasmettere la stessa incertezza del presidente e dell’intera classe che rappresenta la società cilena. Alcuni, definiti paranoici, arrivano persino ad avanzare l’ipotesi secondo cui Cambridge Analytica e simili controllano i nostri pensieri, almeno per quanto riguarda questa faccenda.

Non dovremmo ignorare il fatto che nel breve periodo in Cile sono previsti due vertici di politica internazionale: l’APEC e la COP25. (N.d.R. entrambe cancellate ieri dal presidente Piñera). Tra uno o due mesi in Cile i principali leader mondiali ci faranno visita, e tutti sappiamo cosa significa. Non è questo il momento migliore per chi vuole difendere gli interessi sociali, e lo è ancor meno per coloro che vogliono difendere gli interessi del pianeta. Intanto il Cile è controllato da militari che cercano di gestire la situazione sociale.

Il bilancio è devastante, ciò che è in aumento è soltanto la serie di incendi a negozi e locali, autobus, attacchi a proprietà private e a luoghi pubblici, delinquenza. Insomma, tutto questo si è diffuso a macchia d’olio, e coloro che perderanno maggior capitale saranno le compagnie di assicurazioni, ma sappiamo che, soltanto per quanto hanno lucrato fino ad ora, non sono loro le vittime. Vi invito a mostrarmi un proprietario di almeno una di queste compagnie di assicurazioni che protesta in strada. 

Almeno le notti si sono calmate un po’, ma il fantasma di tutta questa messa in scena rinasce con forza ogni mattina. E al povero governo, che si è rifugiato in un eccesso di odio, cercando di giustificare tutto con una presunta organizzazione criminale a capo dell’improvvisa rivolta, non resta altro che piegarsi davanti all’opinione comune secondo cui tutto questo somigli più ad un autogolpe obbligatorio dovuto alla propria incompetenza. È sicuramente una situazione difficile di cui parlare, ma non dimentichiamo che stanno uccidendo esseri umani.

Tra un coprifuoco e l’altro, si sono diffusi l’orrore e la morte. La cifra ufficiale oscilla fra i 20 e i 30 morti. Quella non ufficiale arriva, per il momento, fino a quota 200. Centinaia le persone ferite e arrestate che ancora non sappiamo dove o in che condizioni siano. Gli abusi di violenza, la presenza di centri clandestini di tortura, gli arresti nelle proprie case di militanti delle Gioventù Comuniste e di leader dei movimenti studenteschi, dimostrano soltanto la barbarie che regna oggi.   

Il Cile è colpito come non mai, più che per qualsiasi terremoto (cosa penserebbe Pedro Aguirre Cerda?), per qualsiasi tsunami o maremoto o come preferisce chiamarlo il presidente. La crisi odierna, di fine di ottobre 2019, è molto di più. L’emergenza è adesso, ma soprattutto è a lungo termine. Non ci sono provvedimenti immediati che ci facciano arrivare ad un accordo nazionale, a meno che questo non venga programmato a più di 30 anni.

Più che di provvedimenti, abbiamo bisogno di un progetto. Le richieste dei cittadini sono state così chiare per cui non è necessario che siano elencate da un leader che faccia da intermediario. Anche se non indosso un cappello da mago, posso affermare che il malcontento sociale è alla base di un sistema moderno, a tutti i livelli che esso comprende: Istruzione, Salute, Previdenza sociale. Tutto il resto rappresenta soltanto una serie di innumerevoli abusi, a partire dalla disuguaglianza propria di un Paese coloniale. Tutti devono essere affrontati con urgenza al pari degli altri.

Il presidente, solo, codardo, indignato e con un’apparente afasia, ha presentato alcune proposte che il giorno successivo hanno scatenato la più grande manifestazione che si sia vista in Cile negli ultimi trent’anni. La classe politica, pensando ai suoi interessi nell’immediato, ha dimostrato soltanto di non essere all’altezza, e che c’è urgente bisogno di un nuovo modello. Non si sono resi conto che stanno vivendo un momento storico da cui usciranno trionfanti, o soltanto con le mani insanguinate.     

Ci sarà da lavorare molto, come in qualsiasi stato democratico, su cose di cui oggi si dubita in Cile, dallo Stato alla Democrazia, e che sembrano appese alla parete di un museo dalla dubbia esistenza, sembrano appartenere ad un’altra epoca. Chi avrebbe immaginato che tra Pinochet e i nostri giorni si sarebbe costruito un Museo della Memoria, ma che allo stesso tempo la fragile memoria non ci sarebbe servita in un museo. Sarà che la memoria è, in sostanza, uno strumento che spinge all’azione, non un ricordo. Quindi se la appendiamo ad un muro non è più memoria, e non serve più a nessuno, smette di avere un significato. Che orrore.

Il Cile ha bisogno con urgenza di un patto sociale, di una Costituzione realizzata in democrazia che ci guidi in questo oceano oscuro in cui ci troviamo oggi. Il processo è iniziato qualche anno fa, quando più di duecentomila persone hanno preso parte al progetto e le loro idee riposano in pagine e pagine che nessuno legge.        

Magari Piñera si renderà conto dell’opportunità che ha davanti, metterà da parte il suo ego per qualche tempo, e recupererà la democrazia. Sinceramente lo spero perchè questa volta il credito sembra non bastare per la vita. Il debito di ciascuno dei sei milioni e mezzo di debitori è minore rispetto a quello dello Stato, ma soltanto pochi sanno come pagare, o alla fine bisognerà pagare in modo definitivo. Il credito si è esaurito per tutti e questo ci spaventa.