Frutto di 12 anni di lavoro, Yomurí – seguendo Il futuro è un posto strano e Autostop per la rivoluzione, entrambi vincitori del prestigioso Premio Municipal de Literatura – conclude così idealmente una trilogia dedicata al rapporto tra memoria, responsabilità e identità, in cui fanno da filo conduttore l’ironia e la scrittura visionaria, e lo fa parlando della tensione tra ciò che ci si aspetta di essere, ciò che si è e ciò che accade nella realtà, del rapporto tra generazioni, di sradicamento e di ciò che si è disposti a fare per la libertà, propria e condivisa. Abbiamo intervistato per voi l’autrice, che ha raccontato di com’è nato il romanzo, partendo da un’esperienza personalissima – il lutto per un genitore – passando per la riflessione sociale e approdando alle gioie dell’invenzione.

Potresti raccontarci l’origine della storia che racconti in Yomurí e quella del nome che dà il titolo al romanzo?
 Ero in barca a remi su un fiume, a Cuba, e la guida mi ha raccontato che in quel luogo, nel V secolo, gli spagnoli volevano costringere a lavorare per loro gli indigeni. Questi però, scegliendo di rimanere liberi, si gettarono dalla scogliera nel fiume, gridando Yamorí mentre cadevano. Ho pensato che fosse una storia inventata per i turisti. Mi sono comunque chiesta se oggi saremmo in grado di dare la vita per mantenere la nostra libertà. Facendo qualche ricerca, ho scoperto che si tratta di un mito cubano ancestrale che potrebbe essere reale. Ho trasformato Yamorí in Yomurí e ho avuto il titolo e la domanda che guida il romanzo.
 
Cosa ti affascina del tema delle origini e dell’identità? E cosa credi che affascini tanto coloro che lasciano tutto pur di trovarle, qualsiasi cosa esse siano o rappresentino per loro?
 Origine, identità, utopia sono motori ancestrali e colpisce la forza di queste idee e anche il loro rifiuto, l’incomprensione e la repressione che viene loro imposta. Poste restante, il mio primo libro pubblicato nel 2001, racconta la storia di una giovane cilena che, zaino in spalla, cerca nel mondo la sua identità, la sua origine. A distanza di vent’anni riprendo questi concetti e rido amabilmente dell’idea che l’identità e l’origine si possano trovare e mi chiedo se non sia qualcosa che accade e si dissolve, che muta continuamente. “Non siamo arrivati, ma ci siamo”, dice la leader al suo popolo durante il viaggio che intraprendono per reclamare la loro terra d’origine. In questo libro rimescolo, tiro fuori dal loro guscio, scompiglio questi motori.
 
Nel romanzo si intrecciano le linee tematiche dei popoli originari e del rapporto con la terra, anche in termini di rispetto per l’ambiente. Trovi che siano tematiche correlate?
 Mi sembra che il rapporto con la terra non implichi necessariamente un rispetto per l’ambiente, piuttosto ciò che si cerca è un luogo da cui comprendere questa terra e il nostro rapporto storico e culturale con essa. Il rispetto per l’ambiente è spesso imposto come un dovere e non è visto come un rapporto contraddittorio, mutevole, pieno di tensioni. Mi interessa di più l’idea di scoprire quale sia il rapporto con la terra, con l’origine e con l’identità a partire dall’esperienza e non da qualcosa di stabilito come un dovere.

Il romanzo prende il via da una relazione in particolare: quella tra padre e figlia. Perché questa scelta?
 Questo romanzo è nato dopo che mio padre è morto in una casa di cura e mi sono sentita in colpa perché è morto fuori dalla sua casa. Ho iniziato a scriverne e non mi piaceva leggere la vecchiaia in maniera vittimizzante. Mi sono chiesta cosa non sono riuscita a fare con lui: vivere un viaggio all’insegna dell’avventura. Mio padre non era avventuroso, così ho inventato un padre avventuroso e una figlia che non lo era. Alla fine ciò che è rimasto di mio padre è la sua ironia nel guardare il mondo e la sua apertura. E aprirsi all’imprevisto che si presenta lungo il cammino è proprio ciò che fanno padre e figlia nel romanzo.
 
Yomurí è il più avventuroso dei tuoi romanzi, quello con la dimensione narrativa più marcata. C’è una ragione per questo spostamento di rotta nel tuo rapporto con la scrittura?
 Da bambina amavo i romanzi d’avventura e, non appena ho potuto uscire da sola, ho vissuto o inventato tante piccole o grandi avventure. Dodici anni fa mi sono trasferita in Argentina e ho iniziato a leggere la letteratura del paese. Vi ho trovato una libertà creativa che non è altrettanto comune in Cile. È esplosa allora quest’energia di creare cose folli e senza senso, di inventare, di immaginare, e mi sono lasciata trasportare da essa senza preoccuparmi di dove andasse o di quale fosse il risultato.
 
Cosa significa per te cercare la libertà?
 Personalmente, come scrittrice, costruire uno spazio dove possa pensare e scrivere come, quando e cosa voglio, senza imposizioni. A livello sociale, cercare di far prevalere la conoscenza che deriva dall’esperienza, con tutte le sue tensioni, e non dalle imposizioni o dal politicamente corretto.